Meno grattacieli, meno densità, servizi diffusi e più verde. Una programmazione per rendere le metropoli luoghi accoglienti La lezione urbanistica della crisi sanitaria - Avvenire archivio
La città dei 15 minuti. Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, è stata la prima ad annunciarla. Già a gennaio 2020 aveva spiegato l’intenzione di contenere i flussi di traffico urbano per rendere la capitale francese meglio vivibile favorendo la prossimità: quartieri dove si vive e lavora, si acquistano beni e si usano servizi, tutto a breve distanza. Così che gli spostamenti si compiano a piedi o in bici, senza necessità di usare mezzi energivori e inquinanti. Dopo il dramma della pandemia questa prospettiva, caldeggiata da C 40, la rete di un centinaio di grandi città del mondo costituitasi a seguito degli accordi di Parigi del 2015, s’è fatta più urgente. E la Hidalgo ha promesso 400 km di nuove piste ciclabili... Anche a Milano, che fa parte di C 40, s’è aperta la discussione su come realizzare la città dei 15 minuti.
Siamo di fronte all’inizio di una rivoluzione urbanistica. Nel XX secolo infatti le città si sono sviluppate attorno a piani di “zonizzazione”: per evitare la prossimità tra le fabbriche (grandi, rumorose, inquinanti) e le residenze, si separavano i quartieri dove si lavorava da quelli dove si viveva, e quindi poi anche dalle zone dei grandi centri commerciali. È nata da qui la città dei flussi, degli spostamenti continui, i centri che di giorno si riempiono e di notte si svuotano. La speculazione immobiliare ha favorito il fenomeno, aggregando zone del lusso nei centri ed estendendo a macchia d’olio le periferie: un fenomeno che il mercato post–lockdown potrebbe ulteriormente accentuare, tanto che gli analisti prevedono un aumento dei prezzi per le villette con giardino attorno a Madrid in Spagna come anche attorno alla densissima e trafficatissima Manhattan.
Ma non dev’essere più il mercato a dettare come si configura lo spazio urbano: «L’accentuazione data all’iniziativa privata – riferisce Maurizio Tira, presidente della Società degli urbanisti italiani nonché rettore dell’Università di Brescia – ha permesso che si perdesse la programmazione dei servizi. Da qui derivano i problemi urbani: trasporti personali inquinanti, densificazione, concentrazione dell’assistenza medica negli ospedali urbani mentre è scomparsa la medicina territoriale. Bisogna tornare alla progettualità. La densificazione va rivista a favore dei sistemi di rete e del dislocamento che favorisce il distanziamento. Vanno rivalutati i borghi abbandonati, soprattutto se vicini ai centri urbani. Fondamentale sarà il recupero degli edifici non più usati, così che la città cresca al suo interno e non al suo intorno. Ed è da ripensare anche la verti- calizzazione, che accentua la densità: ma non vi si può ritornare alla città giardino, eccessivamente dispersa. Oggi non c’è un singolo modello valido ovunque: ogni luogo richiede soluzioni ad hoc».
La densificazione va rivista a favore dei sistemi di rete e del dislocamento che favorisce il distanziamento Vanno rivalutati i borghi, soprattutto se vicini ai grandi centri
Tuttavia il problema del traffico è presente ovunque. «Bisogna che tempi e orari vadano rivisti per favorire lo scaglionamento; se le scuole e le altre attività aprono e chiudono contemporaneamente è difficile ridurre i flussi. Va rivalutata la mobilità pedonale e ciclabile, sinora sacrificata. E va favorito il trasporto collettivo, inclusi bike e car–sharing. Dove queste modalità sono da tempo privilegiate, come a Stoccolma, Zurigo, Copenaghen, Friburgo, il miglioramento della qualità urbana è sensibile». E l’architettura può fare la sua parte, sostiene Pier Luigi Nicolin, noto progettista e docente al Politecnico di Milano, ma deve «recuperare una nuova etica. In una prospettiva meno tecnocratica e volta bensì a innovare la città, ma in continuità con la storia. Prendiamo Milano, dove vivo: come già notava Bonvesin de la Riva nel secolo XIII, è una città d’acqua. Perché dalla metà del secolo scorso fiumi come l’Olona o il Seveso nell’attraversarla scorrono interrati? A riaprirli sarebbero magnifici parchi urbani. E non si devono ritagliare enclavi classiste: qui i ricchi, lì i poveri. Né è buona cosa costruire nuove torri: i grattacieli isolano le persone. Altro è mantenere le distanze per motivi sanitari, altro è isolarle. La città sono luoghi di connessioni e prossimità, e in Italia da duemila anni ne costruiamo di bellissime. Non è questione di reinventarle: bisogna solo riscoprirle».
Il problema è che per ora in realtà in molte città italiane «le cose vanno peggio di prima dell’arrivo della pandemia – esclama Aldo Ferrara, professore di malattie respiratorie, autore di molteplici studi sulla qualità dell’aria in Italia – e l’inquinamento semmai peggiora anziché migliorare». Tanto più l’apparato respiratorio di una persona è indebolito dall'esposizione alla polluzione atmosferica, tanto maggiore è il danno che subisce da Covid–19, anche per questo la prima ondata del virus ha colpito con particolare forza le zone densamente popolate della valle Padana. «Il traffico, una delle principali cause di inquinamento, sta aumentando in molte città – ribadisce Ferrara – Si attiva un circuito perverso: si preferiscono le auto per evitare l’affolla- mento, così aumenta il traffico e peggiora la qualità dell’aria. Le carenze dei trasporti pubblici, in città come Roma o nei piccoli centri urbani, favoriscono tali comportamenti ». E vi sono anche altre criticità: «penso a Palermo, dove si minaccia un’emergenza per i rifiuti il cui accumulo si traduce in pregiudizio per la salute, perché favorisce la diffusione di batteri e virus». I patogeni si propagano rapidamente, mentre le trasformazioni urbane necessarie per dar luogo ad ambienti più consoni alla vita in condizioni di pandemia, richiedono tempi più lunghi. Ma non è detto che siano lunghissimi. «Oggi – sostiene Maurizio Tira – è importante sviluppare la resilienza urbana: che vi siano edifici adattabili a diverse funzioni, come s’è visto fare per i padiglioni fieristici trasformati in ospedali. La tecnica attuale consente di compiere opere edilizie in poco tempo, ma il collo di bottiglia sta nei tempi necessari per ottenere i permessi. Per esempio dopo il terremoto nelle Marche ci son voluti anni per il via libera necessario per interventi che si portano a termine in pochi mesi».
Importante il recupero degli edifici I tempi e gli orari vanno rivisti per favorire lo scaglionamento delle diverse attività e ridurre i flussi di traffico
Non è stato così a Genova, col nuovo ponte sul Polcevera: «Ed è la dimostrazione – insiste Tira – che se c’è volontà politica è possibile realizzare rapidamente le opere. Ma questo dev’essere la norma, non l’eccezione. Ci vuole progetto, programmazione sul lungo termine, a dieci, trent’anni di tempo. E bisogna investire per formare le persone, così che siano pronte e capaci di agire nelle condizioni di emergenza. Il rapporto Casa Italia ha dimostrato che investendo in prevenzione si risparmia sino a sette volte tanto quel che si spende se bisogna ricorrere all’improvvisazione per rispondere alle emergenze. È necessario sburocratizzare, ridare spazio alla programmazione e alla difesa dell’interesse comune. Anche le città si progettano, non solo gli edifici». Insomma, se la città dei 15 minuti è la prossima meta dello sviluppo urbano, bisogna subito tirarsi su le maniche. La crisi Covid–19 così può divenire il prodromo per la rinascita di città più accoglienti e ben abitabili. In un’Italia che si dimostri capace di essere degna della sua antica tradizione urbana.