Con il Papa per la Chiesa
sabato 26 settembre 2020

Quasi cinquant'anni fa, otto giorni prima della famosa omelia del 29 giugno 1972 sul «fumo di Satana» che è filtrato – contro la logica e le aspettative – nella Chiesa del Concilio, il grande papa Paolo VI aveva annotato un pensiero semplice e struggente, dal titolo drammatico. Il pensiero, scandito con ritmo quasi poetico e rimasto fino a ieri inedito, ci è stato restituito dall’affettuosa memoria del padre Leonardo Sapienza, reggente della Casa Pontificia (La barca di Paolo, 2018).

«Forse il Signore / mi ha chiamato a questo servizio, / non già perché io vi abbia / qualche attitudine, / o perché io governi e salvi la Chiesa / dalle sue difficoltà, / ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, / e sia chiaro che Egli, non altri, la guida e la salva» (Il terrore e l’estasi, 21 giugno 1972).
Soffrire qualcosa per la Chiesa e rendere chiaro che il Signore, non altri, la guida. Ormai è pronto per questa estrema testimonianza, Paolo VI, affinché il suo ministero di confermare la fede giunga alla sua più spoglia evidenza e al suo più radicale compimento. Sulla stessa scia dell’esperienza dell’Orto degli Ulivi, che non fu risparmiata a Gesù: il quale l’ha donata ai suoi, come grazia, a cominciare da Pietro (Lc 22, 31-32). Tutto lascia pensare che l’ora di questo passaggio cruciale sia venuta anche per papa Francesco, mentre gesti inusuali di umiltà e trasparenza vengono richiesti e compiuti e mentre infuriano polemiche attese e inattese. La purificazione richiesta dalla fede non è mai indolore. Quando l’ora è venuta, però, le manovre dei tessitori di strategie e le macchine dei pretendenti alla leadership, stanno a zero. Nella sofferenza, questa evidenza diventa trasparente e – paradossalmente – rende certa la speranza che le stanze saranno liberate dal fumo. La Chiesa non è una partita tra i notabili dell’apparato, che pensano di poterne disporre: "governando e salvando". La Chiesa è dei piccoli per i quali il Signore è pronto a esporsi e a svenarsi, perché ascoltano la sua voce e vivono di quella, con cuore puro anche se vulnerabile. Quando la sentono, chiunque parli, si emozionano, si commuovono, rivivono. Se non la sentono, non si lasciano ingannare: per quanto levigati siano i discorsi e puntigliose le giustificazioni. Il magistero di Francesco è stato diretto e non reticente, fin dall’inizio, su questo punto cruciale. Questi piccoli fratelli e sorelle di Gesù sono milioni, anzi miliardi. Una piccola parte la conosciamo, la gran parte ci è sconosciuta, come dice il libro dell’Apocalisse.

La "parte nobile" della Chiesa, sono loro. Fino a che ci sono questi, la Chiesa vive: sempre di nuovo i peccati possono essere espiati e le ferite guarite. Senza di loro, non ci sarebbe futuro per le nuove generazioni: e lo Spirito non saprebbe a chi affidare i suoi doni, che resistono alla furia degli elementi e fanno uscire dall'angoscia. Ogni prova della fede, per quanto dura e difficile, può essere superata. La preghiera deve nutrirla di serio discernimento, naturalmente (e ci serviranno parole profonde e passioni evangeliche, più che dichiarazioni di circostanza e silenzi imbarazzati). Ultimamente, però, questa sapienza può venire solo dall’alto. Deve avere intensità giusta e accenti di verità: la preghiera non è una scappatoia dell’impotenza o la difesa dello struzzo. Però non esiste altro passaggio, per liberare le ostruzioni mondane e riaprire le affezioni dello Spirito, che ci riunisce intorno al Signore, non all'apparato (Siamo pronti a soffrire qualcosa per la Chiesa, a questo scopo?).

Nell'omelia per la festa dei santi Pietro e Paolo del 29 giugno 2020, il papa Francesco commentava il testo di Atti 12, 5 («Mentre Pietro era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui»), con queste parole: «Non sparlavano di lui, ma pregavano per lui. Non parlavano alle spalle, ma parlavano a Dio. [...]. Che cosa accadrebbe se si pregasse di più e si mormorasse di meno, con la lingua un po’ tranquillizzata? Quello che successe a Pietro in carcere: come allora, tante porte che separano si aprirebbero, tante catene che paralizzano cadrebbero». Forse capiamo meglio, ora, il senso profondo di quella clausola alla quale il papa Francesco ci ha abituati: «E per favore, non dimenticatevi di pregare per me». Il variegato popolo degli improbabili uditori di Gesù, che non si perdono una parola di Lui, capisce benissimo. E noi dobbiamo sentirci orgogliosi di far parte dei piccoli fratelli e sorelle che lo seguono, comunque. Quanti ai notabili, per quanti ce ne sono ancora, stiano zitti e imparino.

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