Il 18 aprile si conferma il giorno nero del Mediterraneo. Proprio nel primo anniversario del più grande naufragio di migranti della storia recente, 700 migranti annegati, ieri le rotte centrali del Mare di Mezzo sono tornate terribilmente mortali. Il 18 aprile del 2015, sui fondali al largo di Malta, terminava il suo viaggio il peschereccio stipato all’inverosimile di somali e altri africani provenienti dalla Libia. Fu una strage di donne e bambini perché, in questi viaggi, i trafficanti di anime rinchiudono nella stiva i più poveri e i più vulnerabili, coloro che possono pagare di meno. Per loro non c’è speranza quando la barca affonda.
Ieri, per tutto il giorno, sono rimbalzate soprattutto sui social media, in mancanza di conferme ufficiali, le notizie dell’ultima strage del mare. Sono dispersi e forse hanno perso la vita in balia delle onde almeno 200 somali e un numero imprecisato di sudanesi eritrei: altri 200, e forse di più. Un’ecatombe che ha cancellato uomini, donne e bambini imbarcati su 4 gommoni partiti dalle coste egiziane, mentre altri sei cadaveri sono stati recuperati dalla nave di una ong su un’imbarcazione partita dalla Libia. Il bilancio di questa maledetta giornata conferma i dati diramati ieri da Frontex che vedono un’impennata di arrivi sulle coste italiane (quasi 10mila persone a marzo, più che raddoppiate in quattro settimane) e, sull’altra sponda, sottolinea un cambiamento di strategia dei trafficanti di morte. Da un lato, nonostante il caos libico, continuano a fare affari sulla pelle dei disperati provenienti dal Corno d’Africa e dall’area subsahariana occidentale. Dall’altro, diversificano il loro business infame. Spostano cioè sempre più partenze sulla costa egiziana di Damietta, nelle quiete insenature tra Alessandria d’Egitto e Porto Said.
Così la data del 18 aprile 2016, in piena primavera, rischia di diventare l’annuncio di un’altra estate di sbarchi e morte, un campanello d’allarme per la frastornata e impaurita Unione Europea che finora ha pensato solo a come bloccare la rotta balcanica, dividendosi vilmente sulla ripartizione dei profughi dal Vicino Oriente. Ma se la Siria continua a sanguinare, l’Africa non è pacificata e perciò la sua giovane umanità è sempre in movimento. Né somali né eritrei, per stare sull’attualità stretta, credono di poter essere oggi “aiutati a casa loro”. Semplicemente perché "a casa loro" si muore. Mogadiscio resta sotto l’ attacco degli jihadisti di al-Shabaab, mentre le notizie dell’eccidio del suk dell’Asmara compiuto il 3 aprile scorso da militari che hanno ucciso almeno 4 coscritti, in fuga dalla leva senza fine, confermano le ragioni dei giovani che rifiutano lo Stato-caserma sulle rive del Mar Rosso.In entrambi i casi i cittadini delle due ex colonie italiane, due Stati “falliti” (gli storici dicono che non si tratta mai di una condizione casuale) fuggono dalla miseria e dalla mancanza di prospettive. Se l’Ue non è disposta a spendersi davvero per pacificare la Somalia e per aiutare seriamente una transizione democratica in Eritrea (smettendola di fare affari con il presidente “a vita” Afewerki), il flusso continuerà arricchendo il business del traffico di esseri umani. Tutto ciò avviene nemmeno 48 ore dopo il «viaggio triste» del Papa a Lesbo, che ha ricordato alle coscienze del Vecchio Continente chi sono veramente le persone di cui continuiamo ad avere paura: non potenziali terroristi, ma profughi dal terrore. Soprattutto famiglie giovani in cerca di futuro, minori non accompagnati, anziani che non hanno più neanche la speranza di morire nella terra dove sono nati. Vittime della guerra e dei trafficanti di armi, figli della parte più impoverita e dimenticata del pianeta. Che cosa bisogna fare, e subito, Francesco l’ha detto con i fatti, creando un piccolo “corridoio umanitario” per 12 persone dall’isola greca a Roma. Si cambi prospettiva, e cominci la politica a ragionare in maniera diversa e a non domandare più quante persone potranno partire, ma quante se ne possono salvare. Creando – anche su queste pagine lo chiediamo da anni – corridoi umanitari e campi organizzati, magari proprio in Egitto, dove Acnur e Ue possano verificare la condizione dei richiedenti asilo. Insieme, poi, venga la cooperazione, un vero e buon «aiuto a casa loro». Un piano, come (e meglio) del
Migration Compact che l’Italia sta provando a far entrare nella testa d’Europa. Cui, però, deve corrispondere l’accoglienza di chi ha diritto a essere accolto secondo un sistema serio e organizzato, all’altezza dell’Unione.