Fra le torture peggiori che si possono imporre a un ragazzo o a una ragazza nel pieno dell’adolescenza, ovvero fra i 13 e i 16 anni, ai primissimi posti metterei proprio il dover restare forzatamente in casa per un mese, due mesi o anche di più, con i genitori, o con solo un genitore. È esattamente ciò che sta succedendo: improvvisamente nell’età in cui i figli si organizzano per fare a meno di papà e mamma, per schiodarsi dal loro controllo, per liberarsi dal nido materno, finiscono col trovarsi esattamente agli antipodi di questo bisogno evolutivo, ossia chiusi in casa proprio con loro.
Quando la preadolescenza sta finendo, i figli attraversano quei 2-3 anni in cui le componenti ormonali ed emotive esplodono senza mezze misure e spesso in modo imprevedibile. Lo scopo è liberarsi dell’incombenza dei genitori che in genere cercano il dialogo, la confidenza e inseguono ciò che i ragazzi non vogliono più perché lo considerano un elemento di promiscuità troppo infantile. Le provocazioni risultano normali, quasi all’ordine del giorno: evitare la colazione, il pranzo e la cena assieme; opporsi alle richieste scolastiche; stare appiccicati ai videogiochi ore e ore; convertire la notte in giorno e viceversa; e tanto altro. Il genitore che voglia mettersi nella logica di domare tutta questa energia, schiacciata dalla costrizione della convivenza reciproca, rischia grosso.
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Occorre usare una giusta misura e una giusta distanza educativa. Organizzando anzitutto una buona comunicazione. Meglio abbandonare un modello comunicativo centrato sulla richiesta e sulla pretesa, ossia sul fatto che il figliolo o la figliola, in quell’età così particolare della vita, debba sottostare alle richieste dei genitori. Questo tipo di comunicazione porta inevitabilmente allo scontro poiché stimola nei figli adolescenti il bisogno di riproporre la propria identità e la propria presenza trasgressiva.
Sospendere pertanto le comunicazioni troppo personali tipo: “Voglio che tu finisca questo compito; Voglio che ti sbrighi a venire perché stiamo iniziando a mangiare; Capisci o no che ti stiamo aspettando?; Quando ti degnerai di farci l’onore della tua presenza?; Cosa dobbiamo fare per farci ascoltare? È possibile che non vuoi proprio prendere in considerazione quello che ti diciamo?”. E via di questo stampo, quasi che il ragazzo debba rendere conto direttamente ai genitori. Così non può funzionare.
La comunicazione che permette di sopravvivere è di tipo organizzativo, di servizio, oggettiva. Una comunicazione che stabilisce una necessità imprescindibile che va al di là della richiesta genitoriale. In altre parole: “C’è da tenere in ordine la casa; La casa va presidiata nell’ordine e tutti devono darsi da fare; La scuola ha le sue esigenze e occorre organizzarsi in funzione di queste esigenze; C’è da portare fuori il cane”. Non ti sto chiedendo un favore, sto impostando – come papà o come mamma – un’organizzazione che prescinde da una richiesta di volontarietà. Si crea in questo modo una giusta distanza, dove anche il ragazzo può riconoscere, pur nella difficoltà della costrizione reclusiva, la particolarità della situazione e adeguarsi il più possibile.
Un’ultima osservazione. Le scuole si stanno dando un gran da fare. Non si può che ringraziare tutti gli insegnanti e i dirigenti impegnatissimi a mantenere vivo, in una condizione estrema, il senso dell’apprendimento e del fare scuola. Vorrei comunque ricordare che queste condizioni non sono sufficienti a concentrarsi e a mantenere un’attenzione specifica. I ragazzi chiusi in casa vivono una profonda alterazione sia dal punto di vista emotivo, neurofisiologico e neurocerebrale. Non si può pretendere che abbiano le stesse prestazioni che nel contesto scolastico comune, dove ci sono anzitutto i compagni che fungono da rispecchiamento, da incentivatore e da motivatore. Sono soli, isolati, in una condizione anche depressiva.
Voler fare interrogazioni e compiti in classe e ogni sorta di valutazione tradizionale appare per lo meno azzardato. C’è il rischio che di tutte queste valutazioni resti davvero poco in quanto alterate da stati emotivi e psicologici claustrofobici. È, viceversa, il momento di uscire dai soliti schemi e steccati, lezione-studio-interrogazione, e di sperimentare nuove modalità sia di apprendimento più concrete e laboratoriali centrate sul fare, piuttosto che sull’ascoltare, ma specialmente, nuove modalità di valutazione non più focalizzate sulle risposte esatte, ma sul monitoraggio dei processi di crescita. Si tratta di un’occasione straordinaria e merita tutto l’impegno possibile in vista di una scuola migliore, diversa e più efficace.
Pedagogista