Come ostriche sullo scoglio, tenacemente aggrappate laddove ha avuto inizio la loro storia. Le ostriche della novella "Fantasticheria" di Giovanni Verga: dalla loro fisionomia e dalle loro movenze il grande romanziere ottocentesco si lasciò guidare per elaborare "l’ideale dell’ostrica", quel punto d’appoggio che sostiene la povera gente. Lo spiegò a quella dama d’alta società che s’era fermata in un paesino di pescatori – affascinata da quel mondo pittoresco, rude e semplice – ma dopo due giorni fu colta da irresistibile noia.Le ostriche di Verga sono di tutt’altra specie da quelle che hanno riempito le cronache (si fa fatica a dire "politiche") in questi giorni: più che simbolo di mondanità e di sperequazione, la vita delle ostriche divengono la metafora per proclamare la religione della famiglia, quella predicata dal vecchio padron ’Ntoni nei pressi della casa del nespolo. Come l’ostrica vive sicura finché resta avvinghiata allo scoglio, così sarà dell’uomo: vivrà sicuro finché non tradirà quella religione nella quale i padri hanno creduto, sono cresciuti e hanno tramandato valori. Vivranno poveri ma sicuri, forti di quell’umile fierezza che proviene dal quotidiano adoperarsi per guadagnarsi la vita. È una religione che si riverbera sul mestiere delle persone, sulla loro casa e persino sui sassi che segnano la strada per Aci Trezza. Cose tutte «rispettabilissime e serissime».L’ideale dell’ostrica verghiano è una sorta di dichiarazione d’intenti sull’uomo e sulla società. Ed è un monito: quando si tenta di turbare e sconvolgere un saggio equilibrio sociale, si è destinati a fallire e a produrre fallimento. Oggi – che delle ostriche si parla in forma negativa e le si abbina senza allegria con uno champagne non meritato – quest’ideale ben s’addice alla riapertura delle nostre parrocchie all’alba dell’Anno della Fede. All’ombra del campanile – alternando vecchi adagi e arrischiando nuovi percorsi come i Magi – la missione è quella di raccontare e condividere la trama di quella storia sempre più ambiziosa e paradossale che va sotto il nome di cristianesimo, la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai conosciuto e compiuto.Riaprono le porte degli oratori, si rianima la piazzetta in fronte alla chiesa e si riaccende l’eterna sfida: mostrare come la fede cristiana abbia ancora qualcosa da dire all’uomo e alla donna del tempo presente. Come nella novella del Verga, anche qui c’è uno scoglio al quale rimanere aggrappati, pena il rischio di lasciarci divorare dalla disperazione. Uno scoglio che corrisponde a un Volto, Gesù di Nazaret, il cui nome non sta scritto sulla sabbia come le vecchie poesie d’amore ma è inciso sulla roccia, materia evangelica di provata robustezza. Perché l’uomo, rimanendogli fedele, possa sperimentare la bellezza e l’utilità di un Dio che perdutamente lo ama, ma soprattutto il piacere di creare amicizia con Lui. E se la sagoma dello scoglio terrà la morfologia del Golgota, varrà ancor più l’alfabeto dell’ostrica: quando entra in essa un granellino di sabbia prova dolore. Per difendersi dall’irritazione, lo avvolge con strati di madreperla che, usciti, daranno forma alla bellezza della perla. Dentro la bellezza alloggia la sofferenza, come dietro il sepolcro abita il Calvario: ostriche felici non fanno perle, ostriche sofferenti sono artigiane della bellezza.Tutto il Vangelo prepara alla Risurrezione, ma non la descrive. Rimane quel sepolcro spalancato come occasione di inaspettato stupore, al quale sapranno prestare voce coloro che sullo scoglio di Cristo stanno aggrappati come le ostriche del Verga. Per evitare che il mondo, da pesce vorace qual’è, ne deturpi la bellezza.