venerdì 6 febbraio 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Corre Achille il piè veloce, corre per raggiungere la tartaruga, simbolo di lentezza. Corre dieci volte più veloce di lei e per questo le concede dieci metri di vantaggio. Ma mentre Achille percorre i dieci metri la tartaruga si sposta di un metro. E quando Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro, e se Achille si sposta di un decimetro la tartaruga guadagna un centimetro, e così via all’infinito, senza mai raggiungerla. Per comprendere il delicato risiko che vede protagonisti da un lato la Bce, dall’altro la Germania e dall’altro ancora Atene dobbiamo partire da un paio di presupposti essenziali: la Grecia è tecnicamente fallita dal 2010. Tutti lo sanno, la Troika (Ue, Bce e Fmi), i governi del Nord, i banchieri, i creditori, e tutti fanno finta di non saperlo, a cominciare dai greci stessi. Secondo presupposto: onorare i vari debiti da parte della Grecia significa irrevocabilmente non raggiungere mai un livello di crescita tale da uscire dalla profonda crisi in cui si trova la nazione. Come nel paradosso di Zenone, la crescita economica – per quanto veloce e irruenta come Achille – non basterà mai a ripagare gli interessi sul debito: la piccola tartaruga del debito sarà sempre un passo avanti.   Dieci giorni fa si è insediato il governo a maggioranza Syriza con il concorso dell’alleato Anel, il piccolo partito conservatore che ha in comune con la sinistra radicale il rifiuto delle regole imposte da Bce, Commissione Europea e Fondo Monetario Internazionale. Il leader del partito uscito vittorioso dalle elezioni del 25 gennaio, Alexis Tsipras, ha immediatamente gettato sul tavolo le richieste tante volte agitate durante la campagna elettorale e contenute nell’ormai famigerato Programma di Salonicco. Una parte di esse riguardano il blocco delle privatizzazioni concordate dal precedente governo e il ripristino della tredicesima mensilità, l’innalzamento del salario minimo ed altre misure di alleggerimento nei confronti di un corpo sociale esausto di cui un 30% oscilla sopra e sotto la soglia di povertà. Ma per ottenere i propri scopi Tsipras e il suo ministro delle Finanze Yanis Varoufakis hanno dovuto puntare al bersaglio grosso, quella Troika e le imposizioni che i suoi men in black hanno prescritto e inflitto negli ultimi quattro anni alla Grecia senza peraltro ottenere il principale degli obbiettivi, quello di ridurre il rapporto tra il debito e il Pil, che dal 125% prima della 'cura' viaggia ora attorno al 185%, con uno spread dei titoli greci oltre i 900 punti. «La Troika – hanno insistito il leader e il suo ministro – non esiste più».   Ma la risposta del più importante dei tre vertici della Troika, la Bce, è stata molto dura e soprattutto molto realistica: dalla settimana prossima, ha stabilito il direttivo di Francoforte, non saranno più accettati in garanzia i titoli del debito pubblico di Atene a copertura della liquidità, tecnicamente «perché non è più certa la chiusura del memorandum con i creditori», di fatto perché sono titoli-spazzatura, declassati al rango più infimo dalle agenzie di rating e dunque ad altissimo rischio. In filigrana, la Bce – che peraltro ha agito nell’unico modo che il suo statuto e i Trattati le consentono – reca il chiaro messaggio di Berlino (su tutti ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble, portavoce dei rigoristi del nord): non si accettano ricatti da Atene. Replica di Tsipras: «Non stiamo ricattando e non accettiamo ricatti a nostra volta». In perfetto stile greco, una plateale aporìa, ovvero una scelta impraticabile fra due opposte soluzioni. In realtà non tutti i rubinetti del credito sono stati chiusi. Le banche greche possono ancora attingere al fondo Ela (Emergency Liquidity Assistance), provvidenziale paracadute che protegge gli istituti di credito da una fatale crisi di liquidità. Un pericolo assolutamente reale in Grecia, innanzitutto per la vistosa fuga di capitali che si è verificata negli ultimi mesi (70-80 milioni al giorno secondo alcune stime), ma anche per la mancanza di fondi necessari a pagare gli stipendi del settore pubblico.   Attualmente le banche vantano depositi per non più di 160 miliardi. I greci sanno cosa ciò significherebbe. In Argentina nel 2001 chiamarono corralito l’arrembaggio agli sportelli bancari e ai bancomat, nel 2013 nella vicina Cipro vi fu una replica allorché il governo (in ossequio alle richieste della Ue) annunciò un prelievo forzoso sui conti correnti e un limite di prelievo giornaliero. La Bce garantisce che almeno 60 miliardi sono ancora a disposizione (nel 2012 vi fu una trasfusione di ben 120 miliardi per tenere in vita il sistema bancario), ma la Germania – per bocca del numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann – già storce il naso e chiede standard rigorosi e certezze di rimborso. Un paradosso nel paradosso di Zenone. Il che non ha impedito ieri all’agenzia Bloomberg di avvisare i mercati che se non rinnoverà il suo programma per una nuova linea di credito, la Grecia rischia di non poter far fronte ai suoi pagamenti il 25 marzo prossimo. Come dire, il default tecnico.   Come si può facilmente intuire, due universi concettuali si confrontano e si scontrano: quello malthusiano- max weberiano del Nord e quello post-keynesiano che meglio si adatta alla vicenda greca (non avendo l’aulica Ellade un Adam Smith o un Ricardo da poter sventolare in opposizione ai grandi maestri del capitalismo protestante). Gli uomini del Nord convinti tuttora che solo riducendo il deficit ripartirà l’economia, una scuola di pensiero che potremmo chiamare dell’austerità espansiva; i secondi convinti (ma diciamo pure mollemente adagiati, considerato l’inveterato vizio greco di rimandare i rimedi e le decisioni, appunto, alle calendeomonime) che la recessione si combatte con i deficit di bilancio e non con l’austerity. Ciascuno in realtà diffida dell’altro, ciascuno rumina rancori antichi e meno antichi. I greci si ricordano bene di quel Abkommen über deutsche Auslandsschulden del 1953, l’accordo sui debiti esteri della Germania che di fatto dimezzò l’onere di Bonn nei confronti dei Paesi creditori e consentì alla Germania il grande balzo verso la rinascita economica. I tedeschi non dimenticano che – con il concorso di due banche d’affari di prim’ordine come Goldman Sachs e JPMorgan – Atene truccò per almeno dieci anni i propri bilanci presentando conti pubblici talmente ritoccati da sembrare veri, utili comunque ad entrare trionfalmente nell’Unione Europea e nell’area dell’euro.   Oggi siamo a una ringhiosa resa dei conti. Si mostrano gli artigli, c’è un certo rumore di sciabole. E c’è chi realisticamente considera la Grecia appesa a un filo. Un filo che si chiama Ela, senza il quale si imbocca una deriva che porta inevitabilmente al ritorno della dracma. Senza contare che c’è chi – nel segreto ovattato delle stanze che contano – pagherebbe oro per poter assistere all’uscita di un Paese membro da Eurolandia. Un vero e proprio test sociale, una specie di simulazione in vitro, e in questo la Grecia – che incide non oltre il 3% del Pil europeo – sarebbe una cavia perfetta, sia per studiarne le conseguenze sia per mandare un monito a tutti gli euroscettici del continente. Ma la Germania di oggi non è più la Prussia di Federico il Grande e le sue armate di banchieri hanno perduto la ferocia e la determinazione del feldmaresciallo von Blücher. Non ci sarà una Waterloo per Tsipras, piuttosto un armistizio e un onore delle armi. In modo che tutti possano salvare la faccia.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: