Lo stretto crinale del rapporto insegnanti-ragazzi
giovedì 8 giugno 2017

Scene di ordinaria tensione scolastica: un’interrogazione, un brutto voto, il disappunto di uno studente che fatica ad accettare l’esito negativo della prova. Solo che questa volta lo studente si alza e con una frase perentoria («Professore, io esco»), non una richiesta, lascia l’aula sbattendo la porta.

Non posso fare a meno di sanzionare il comportamento con una nota disciplinare sul registro. Dieci minuti dopo il ragazzo rientra, si siede al suo posto e mi accorgo che ha pianto. Gli comunico la nota, facendogli presente la scorrettezza di un comportamento che giudico inaccettabile. Lui, per parte sua, lo riconosce, ma nel frattempo ho capito che la sua reazione sbagliata era il segno di una sofferenza, di una fragilità. All’intervallo lo prendo da parte. La nota sul registro rimarrà, perché è mio compito fargli capire cosa si può fare e cosa no. Quando gli parlo dell’importanza di controllare la propria emotività, so che gli sto dicendo una cosa giusta, ma penso – dentro di me – a quante volte anche noi adulti l’emotività non sappiamo affatto controllarla: ahimè, capita persino agli insegnanti... Gli chiedo però di analizzare il proprio comportamento.

Gli domando come mai quest’anno ha fatto tante assenze. Lui mi parla di sé, di un certo problema di salute, dell’insonnia, di una separazione tra i genitori che l’ha profondamente disorientato. Ha avuto un percorso scolastico travagliato, per questo a diciannove anni è ancora in quarta liceo. A diciannove anni in altri tempi si sarebbe detto un uomo. Eppure il suo viso, rosso per le lacrime, sembra quello di un bambino. Mi accorgo che dopo mesi di scuola non conosco davvero questo ragazzo arrivato nella mia classe a settembre.

Ma non è forse così per tutti gli altri studenti? Quanto sappiamo noi docenti della loro vita, di che cosa passi loro in mente, da quali gioie, sofferenze, passioni, entusiasmi, paure, aspirazioni siano attraversati? Loro sono tanti, io sono uno solo, e quello tra alunno e docente non è un rapporto diretto, bensì mediato dalla materia di insegnamento, e perciò basato sulla particolare tipologia di relazione che attraverso l’insegnamento si instaura. Il mestiere di insegnante ha due facce. Da una parte il compito di formare i ragazzi al rispetto di alcune regole, anche al costo di una certa rigidità. Là fuori c’è un mondo – si pensi al campo lavorativo – in cui è richiesta una notevole capacità di adattamento, oltre al rispetto formale dei rapporti gerarchici: che cosa succederebbe se un impiegato sbattesse provocatoriamente la porta uscendo dalla stanza del suo capo? Dall’altra parte, però, c’è la complessità dell’adolescente, o del bambino, di cui chi insegna è chiamato a farsi carico.

La scuola negli ultimi anni ha previsto istituzionalmente le figure dei tutor, degli psicologi e così via. Ma ciò non basta. Ciascun insegnante di fronte ai problemi dei suoi alunni non può voltarsi dall’altra parte. Maestri e professori camminano su questo stretto crinale tra l’esigenza, legittima e doverosa, di disciplina e l’offerta della propria disponibilità umana. Diciamolo chiaro, mentre arriva a conclusione un altro anno scolastico: insegnare è un lavoro bello, perché hai a che fare con la complessità dell’essere umano, ma anche dannatamente difficile.

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