Che ora tutti vogliano soltanto il bene di Eitan
martedì 14 settembre 2021

Nell’ultima foto del mondo di prima, scattata pochi istanti prima della catastrofe, Eitan è inquadrato di spalle, con un braccio attorcigliato attorno al busto. È una di quelle pose che i bambini assumono quando sono concentrati e sorpresi. Hanno bisogno di tempo per capire e intanto cercano la mite rassicurazione che viene dalla sensazione di essere abbracciati oppure, se capita, di abbracciare sé stessi. Così era per Eitan, forse, mentre dal finestrino della funivia contemplava la montagna dalla quale la sua vita stava per precipitare. Abbracciare sé stessi, darsi forza, trovare coraggio al cospetto dell’incomprensibile. Con il passare del tempo, gli adulti perdono questa forma minima e un po’ illusoria di saggezza.

Alcuni la smettono con gli abbracci e basta, ripetendosi che la realtà è troppo dura e spigolosa per poter essere in qualche misura accolta. Partono al contrattacco, allora. Si impongono e, quando non possono imporsi, distruggono. Poi ci sono gli altri, gli adulti che si impegnano a diventare grandi e per fortuna ce la fanno. Sono loro a inaugurare un altro tempo, quello nel quale abbracciare l’altro diventa più importante del bisogno di essere abbracciati. Anche qui si potrà sbagliare, ma è proprio questo che ha fatto Amit Biran, il padre di Eitan, il 23 maggio scorso: ha abbracciato suo figlio, lo ha difeso con il proprio corpo, ha dato tutto di sé (i suoi trent’anni appena compiuti, i suoi studi, il suo amore) perché l’altro si salvasse.

Qualche giorno fa un altro abbraccio, molto più brusco, si è stretto intorno a Eitan: quello del nonno Shmuel Peleg, che come tutto il ramo materno della famiglia si è da subito detto persuaso che il bambino avrebbe dovuto lasciare l’Italia per tornare a crescere in Israele. Una convinzione che sabato scorso si è fatta determinazione, inducendo l’uomo a organizzare un volo privato da Lugano a Tel Aviv pur di imporre la propria volontà. Certo, Eitan ha solo sei anni e ancora non può decidere per sé. A quell’età è sempre qualcun altro che provvede, o almeno ci prova. Come? Mettendosi in ascolto, interpretando i minimi segnali che non mancano di sfuggire al recinto incantato dell’infanzia, trovando parole dove parrebbe esserci solamente silenzio.

Fatto salvo l’effetto di prossimità generato da un caso tanto doloroso, noi non sappiamo niente di Eitan. Non lo abbiamo mai visto in volto, sappiamo solo che ha i capelli neri e che, quando è soprappensiero, si stringe a sé stesso per fare onore al suo nome, che in ebraico significa “il forte”. Non sappiamo altro, ma l’ignoranza non ci impedisce di sperare che questo figlio del miracolo ritrovi presto l’abbraccio di cui ha bisogno. Possiamo solo sperare che chi gli vuole bene abbia il coraggio di volere veramente il suo bene.

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