Sabato, quando Omar Abdel Hamid el-Hussein ha aperto il fuoco al Krudttønden di Copenhagen, il dibattito sulla libertà di espressione era ancora alle prime battute. Inna Shevchenko, leader ucraina delle Femen (il movimento ultrafemminista noto per le sue plateali azioni di protesta) stava ragionando sul cosiddetto “argomento-ma”. Si tratta, in sintesi, di questo: qualsiasi affermazione che cerchi di limitare o circoscrivere la libertà di espressione va respinta, in quanto rischia di introdurre una censura più o meno velata, più o meno consapevole. Non si può, per esempio, essere solidali con le vittime di Parigi
ma eccepire sull’umorismo di “Charlie Hebdo”, perché in questo modo si finisce per fornire una giustificazione – non importa quanto parziale – alla violenza terrorista. Punto delicatissimo, perché l’esclusione del “ma” e del “se”, del “benché” e del “quantunque”, potrebbe a sua volta essere intesa come una forma di limitazione della stessa libertà che si intende difendere. Detto altrimenti: nel momento in cui si ammette che l’espressione è libera, ciascuno deve essere libero di esprimere la propria opinione, anche e specialmente quando questa si oppone al sentire comune. E che il sentire comune dell’Occidente coincida con la convinzione che la libertà di espressione sia, per sua natura, completa e assoluta è un dato difficile da confutare. La formula che meglio sintetizza questa persuasione diffusa è stata coniata dal belga Raoul Vaneigem, pensatore di spicco della cultura anarco-situazionista.
Nulla è sacro, tutto si può dire è il titolo di un suo pamphlet apparso una dozzina di anni fa e, insieme, l’insegna araldica sotto la quale trova posto ogni possibile forma di derisione e profanazione, dalle “vignette danesi” del 2005 fino alle copertine di “Charlie Hebdo”, senza dimenticare i precedenti né trascurare gli ultimi aggiornamenti. Ma è davvero così? O non sarà che questa visione illimitata della libertà di espressione assomiglia piuttosto ai possedimenti del Marchese di Carabas, la cui esistenza poggia solo sul fatto che i contadini, istigati dal Gatto con gli Stivali, fanno a gara nell’ingigantirne l’estensione? “Nulla è sacro, tutto si può dire” è un’affermazione indiscutibile solo in apparenza. Se tutto si può dire, infatti, si può dire anche che esiste qualcosa di sacro e, quindi, intangibile. Se quest’ultima opinione non può essere espressa, significa che esiste un ambito collocato al di fuori del dicibile e, quindi, tecnicamente “sacro”. Un ambito che si identifica appunto con la trasformazione della libertà di espressione in feticcio indiscutibile, al riparo dai “ma” e dai “se”. Non è questione di opportunismo, né tanto meno di resa o connivenza nei confronti delle minacce fondamentaliste. Per fugare ogni dubbio ci si può appellare alla testimonianza di Kaj Munk (1898-1944), pastore e drammaturgo annoverato tra i martiri della Chiesa luterana danese. In uno dei sermoni antinazisti che precedettero la sua uccisione da parte delle truppe di occupazione, Munk così affrontava il rapporto fra parola e libertà: «La parola è libera – sosteneva – non perché noi possiamo disporne, ma perché la parola stessa dispone di noi». Un modo particolarmente efficace per ricordare come non possa esistere libertà di espressione senza relativa assunzione di responsabilità. Gli assassini restano assassini e nulla, neppure la provocazione più smaccata, può giustificare la soppressione di una vita umana. Questo è il tratto di strada che l’Occidente ha percorso da tempo e che non ammette ripensamenti. Adesso, però, è arrivato il momento di ricordare perché ci siamo messi in cammino. Che cosa difendiamo, quando difendiamo la libertà che abbiamo conquistato? Il diritto a edificare le cattedrali o il diritto a imbrattarle? Il primo diritto (quello di costruire) contiene il secondo (quello di irridere e svilire), ma non vale il contrario. Sul nulla, nulla attecchisce. Di sicuro non la libertà.