sabato 17 gennaio 2009
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Sembra assurdo dirlo dopo tre settimane di combattimenti, quasi 1.200 morti, di cui almeno un terzo donne e bambini, e una tregua a cui molti lavorano, ma la guerra di Gaza potrebbe vivere proprio adesso le sue ore più pericolose ( e speriamo soltanto ore, se è vero che Israele discute oggi di un cessate il fuoco unilaterale e immediato). I leader palestinesi e il governo di Tel Aviv, infatti, cominciano a sentire il peso del tempo che passa. In modo opposto, agiscono sugli uni e sugli altri le stesse scadenze, condizioni più o meno vincolanti che possono anche spingerli verso decisioni gravi e potenzialmente disastrose. I capi di Hamas, asserragliati nei bunker e molto meglio protetti della popolazione della Striscia, forse confidano in un’eventuale stanchezza di Israele, nelle pressioni internazionali ( inevitabili e crescenti, visto il prezzo in vite umane) e magari in un diverso atteggiamento degli Usa dopo la definitiva uscita di scena di George W. Bush. Sono quindi tentati ad andare fino in fondo, per dimostrare quanto già molti sospettano: sradicare il movimento dalla Striscia è di fatto impossibile. Allo stesso modo Israele, atteso il 10 febbraio a cruciali elezioni politiche, vorrà mostrare ai cittadini di aver garantito loro la sicurezza e al mondo di aver raggiunto l’obiettivo dichiarato. La sua tentazione? Intensificare i colpi militari per affrettare i tempi, vincere comunque e sfuggire a una riedizione della guerra in Libano del 2006: grande successo militare, grande insuccesso politico. Tentazioni che non si elidono e tendono invece a sommarsi, con il risultato di rovesciare sulla popolazione civile, soprattutto palestinese, una carica ormai insopportabile di distruzione e violenza. In questa situazione il paradosso è duplice. Da un lato, la gente è solidale con chi spara. In Israele, i sondaggi condotti dai quotidiani Haaretz e Maariv mostrano che una percentuale vicina all’ 80% approva gli scopi e la gestione dell’operazione ' Piombo fuso' e nega che l’esercito faccia un uso eccessivo della forza. Ma se la trojka Olmert- Barak- Livni si aspettava che le sofferenze spingessero i palestinesi della Striscia a ribellarsi ad Hamas, per ora si è sbagliata e, anzi, le notizie che arrivano da Gaza parlano di una tendenza esattamente contraria. L’altra faccia del paradosso è che, a dispetto di tanto consenso, missili, carri armati e bombe non avvicinano di un millimetro le parti non solo a una risoluzione equa del problema ( due Stati capaci di vivere uno accanto all’altro) ma nemmeno a una iniqua, quale potrebbe essere per assurdo l’annientamento dell’una o dell’altra. Israele resterà comunque lo Stato forte della regione, più democratico, organizzato, sviluppato e armato di ogni altro. Ma gli ebrei sono condannati dagli andamenti demografici a diventare, nella Palestina storica, una minoranza sempre più ristretta, dal 50% di oggi al 35% del 2050 e via via a scendere. Ancora una volta, dunque, i dati della realtà s’impongono sugli argomenti della propaganda. Israeliani e palestinesi sono condannati a vivere insieme in pace o a tormentarsi l’un l’altro in eterno, e il fatto che questo o quello non riescano ad accettarlo non cambia i termini del problema. Nello stesso tempo, e soprattutto se «presto, molto presto» ( parole di Condoleezza Rice) arrivasse un cessate il fuoco, la vicenda di Gaza conferma che la guerra è ormai un arnese troppo vecchio e doloroso per pensare di usarlo, oggi, come grimaldello dei problemi politici internazionali. La pace, in Medio Oriente come altrove, non è un pio desiderio ma una necessità ineludibile.
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