Caro direttore,
la liturgia della Parola della domenica scorsa imponeva di mettere nel bagaglio del credente che intende mettersi alla scuola di Cristo, due atteggiamenti: la vigilanza e una capacità di ascolto che ha come imperativo “tu fa’ il primo passo”, perché si impegna non a persuadere o convincere quanto a “guadagnare” il proprio fratello. Dentro a questo quadro assai rigoroso, è possibile individuare alcuni tratti di percorso del seguace di Cristo, fedele alle indicazioni evangeliche e, pertanto, impegnativo come la correzione fraterna.
A partire dal fatto duplice che nell’errore l’uomo non è mai solo e abbandonato; e che colui che ha subito l’offesa è chiamato alla conversione; infine, che è la comunità tutta a essere responsabile perché ogni attentato all’unità e fraternità offusca la presenza di Dio. Condizioni severe ed esigenti che caratterizzano il compito di sentinella (della vicinanza amorevole di Dio) che il profeta Ezechiele illustra con grande passione: una vocazione che non può essere mai quella di fustigatore dei peccati altrui (Dio non voglia mai con compiacimento della propria integrità religiosa!); un compito che, invece, occorre assumere con grande responsabilità, preoccupati per la sorte del fratello. Essendo l’obiettivo finale, quello di essere una comunità cristiana credibile perché unita nel nome di Dio, i passi da fare – e non solo per le diverse situazioni di vita – sono molteplici; partono dalla capacità di ascolto, perché il dialogo è legittimato dalla fraternità e non dal ruolo (o dalla autorità) che si svolge; in secondo luogo è legato dalla gradualità del confronto, a sua volta libero da ogni arroganza. In altre parole, non basta stigmatizzare il male, ma occorre anche creare le condizioni perché chi è nell’errore possa ricredersi e rivedere la propria posizione.
Appunto perché l’obiettivo – sull’esempio di Cristo sulla croce – è il “guadagno” del fratello, occorre ricordare che il potere di perdonare non è un potere giuridico, ma è il potere (nel senso della “potenza e forza”) di diventare una presenza, in altre parole di fare in modo che «l’eternità di Dio si insinui nell’istante presente» della vita del fratello e, dispiegando la sua potenza liberante perché misericordiosa, lo accompagni e sostenga.
Il Vangelo, infine, oltre a rivelare il progetto finale, ricorda da una parte che dopo averle provate tutte (nei tre passaggi indicati dal Vangelo) ci viene posta una condizione finale, quella di comportarsi come Gesù si comportava con i peccatori ed i pubblicani cioè andandoli a cercare, annunciando loro la salvezza, la misericordia e la tenerezza di Dio. Tutto questo, secondo una modalità specifica: «Se vuoi avere la vita... », cioè con amore e libertà. La conclusione è presto detta: alla Chiesa è affidato un compito preciso , quello di “sciogliere il male” e di “legare” le persone nella comunione, condizione iniziale e finale in quanto troverà pienezza totale nel Regno di Dio a cominciare da questa vita.
Lo dico a me stesso, con tremore, e vorrei suggerirlo anche al giovane parroco di Staranzano che chiede aiuto e discernimento nella vicenda del capo scout della sua comunità che si è unito civilmente a una persona dello stesso sesso. Tutto questo, prima di tutto, è evangelizzazione. Il resto ideologia o indottrinamento. Lo abbiamo ricevuto dai nostri educatori oltre cinquanta anni fa e dal Concilio: cercare di testimoniarlo nel nostro piccolo è la missione. Non conosco altri modi che siano insieme concreti e credibili. Mettersi su questa lunghezza d’onda è la missione della Chiesa, ribadita dal papa Francesco a Medellin con larghezza di parole e di gesti eloquenti. Essere «la Chiesa con le porte, aperta a tutti», perché «non è nostra, ma di Dio: c’è posto per tutti! », con i tre atteggiamenti che ha proposto appunto a tutti: «Andare all’essenziale, rinnovarsi e coinvolgersi ».
*decano Gorizia