Dante e Beatrice, opera del pittore inglese Henry Holiday (1883)
Il programma di Letteratura Italiana in terza superiore è un profluvio d’amore. La lirica provenzale, i poeti siciliani e quelli toscani, il Dolce Stil Novo, Dante, il Canzoniere di Petrarca: spesso le poesie che si affrontano in classe parlano del sentimento più misterioso che c’è. L’amore è per alcuni poeti una malattia, per altri un’onda incontrollabile, per altri una forza che affina, che migliora, che eleva l’animo; per altri ancora una rampa di lancio verso l’infinito, verso l’incontro con Dio stesso. Nessuno è mai riuscito a definire compiutamente l’amore. Per questo mi piace discuterne con gli studenti. Una volta diedi a una classe un tema dal titolo così banale da essere difficilissimo: «Che cos’è l’amore?». Spiegai agli studenti che non pretendevo ovviamente una risposta esaustiva, del tutto impossibile, ma che mi sarebbe piaciuto leggere i loro spunti di riflessione, le loro considerazioni, a partire da quanto scritto dai poeti che avevamo letto insieme. Mi sarebbe piaciuto capire quali autori li avevano convinti di più e quali di meno.
Leggendo gli elaborati, fui colpito dal fatto che tutti tendevano a raccontare di persone, incontri, relazioni concrete. Certo, si coglieva tra le righe lo sforzo di cercare definizioni e chiavi di lettura, ma tutti i temi avevano la descrizione di almeno un volto, di un individuo che, in qualche moto, per chi scriveva, rappresentava una dimensione fondamentale dell’amore. Ripensai a una discussione avuta poco prima con una delle persone che più stimo: un amico geniale, materialista lucidissimo e rigoroso, laureato a pieni voti in una delle università più prestigiose d’Europa. Io e questo amico abbiamo idee diverse su tutto: fede, senso della vita, visione del mondo e dell’esistenza; per questo mi piace moltissimo confrontarmi con lui. Quella sera eravamo a cena con le nostre famiglie. L’argomento era assai impegnativo: può esistere qualcosa di reale che non ricade sotto il dominio dei sensi? La posizione del mio amico era nettissima: «No. Non esiste la metafisica», aveva detto. «Tutto ciò che è reale è concreto e misurabile. Il resto sono fantasie».
Io allora avevo provato a condividere con lui diverse esperienze che invece portano a intuire un oltre, qualcosa di più grande che ci avvolge e ci chiama. Avevo citato, tra le prime, l’esperienza dell’amore. Ma il mio amico aveva una risposta anche per quello (ha sempre una risposta per tutto): « L’amore non esiste», mi aveva detto sicuro. A suo avviso, ciò che io chiamavo amore è un fenomeno fisico, causato da ormoni, da neuroni specchio e da altre dinamiche biologiche finalizzate all’attrazione reciproca, all’unione sessuale e alla perpetuazione della specie, come avviene in tutto il regno animale, del quale noi facciamo parte esattamente come un cane o un elefante.
Sua figlia, una ragazza delle superiori, aveva ascoltato tutto e alla fine era intervenuta. « Papà – aveva detto – io stimo tantissimo la tua intelligenza. Ma forse le cose, a volte, più che analizzarle razionalmente, andrebbero… vissute!». Di fronte ai temi di quella classe mi tornò in mente la risposta della figlia del mio amico. Non basta definire l’amore, bisogna viverlo. L’amore non è un teorema: è un volto, una mano che ne stringe un’altra, un abbraccio, un sorriso; è dono di sé che si fa carne, quotidianità. È rivelazione reciproca di sé. A volte pensiamo che per conoscere davvero qualcosa l’unica strada sia analizzarla a freddo, come in un laboratorio. Ma la dimensione affettiva, relazionale, nella quale si è implicati in prima persona, è funzionale alla conoscenza di una realtà, perché ne schiude significati nuovi. La molla della conoscenza è un interesse, un fascino che attrae: una fredda razionalità, per quanto lucida, non basta per avvicinarsi alle cose, per decidere di compiere lo sforzo necessario a conoscerle.
La conoscenza, soprattutto nelle relazioni umane, non passa solo dalla ragione, ma anche dal desiderio di rivelare sé stessi all’altro e dalla fiducia nell’altro, dal consegnarsi a lui. Non si conosce davvero senza riconoscersi coinvolti in una relazione: era questo ciò che trovavo in quei temi sull’amore e nella risposta della figlia del mio amico. Poi mi imbattei nell’elaborato di Elena, studentessa dalla grande maturità e intelligenza, molto equilibrata, sempre impegnata. Leggere l’inizio del suo scritto fu uno shock: «Il titolo di questo tema non ha senso, perché l’amore non esiste». L’amore non esiste: proprio ciò che aveva detto il mio amico in quella discussione. Elena, tuttavia, non usava argomentazioni razionalistiche per sostenere la sua affermazione, ma un’esperienza di vita. Un’esperienza dolorosa: «Quando penso ai miei genitori, me ne convinco sempre di più. Mio padre ha lasciato mia madre quando era incinta. Io non mi ricordo di avere mai fatto nulla con loro due insieme: una vacanza, un’uscita la domenica pomeriggio. Ricordo però le loro urla e le loro litigate: mi sono sempre sentita usata come un oggetto di contesa, come un’arma per colpire l’altro. Le decisioni sulla mia vita sono sempre state il loro campo di battaglia».
Sospesi la lettura per un istante. Quelle parole facevano male, bruciavano dentro. Poi trattenni il fiato e ripresi: «L’amore non esiste. O è insensata idealizzazione dell’altro, o è desiderio di possesso mascherato. O, peggio, è conflitto: è voglia sadica di fare male all’altro per il gusto di farlo». Parole durissime, senza speranza, che stridevano tremendamente con la ragazza che le aveva scritte, con la sua affabilità, con la sua voglia di fare. Parole seguite da una riga bianca in fondo alla pagina. Il tema finiva così.
Richiusi il foglio protocollo, talmente amareggiato da non sapere quale commento scrivere. Fu in quel momento che mi resi contro che lo scritto in realtà non era concluso. Elena aveva volutamente saltato una riga per segnare uno stacco, ma il tema continuava nella pagina successiva. Continuava così: «Forse, però, quello che scrivo non è vero. Forse esiste qualcosa di più. A mettere in crisi le mie certezze è lo sguardo di mia nonna, quella luce che le brilla negli occhi ogni volta che parla di mio nonno. Mio nonno è morto tanti anni fa, quando io ero ancora piccolissima. Eppure, ogni volta che mia nonna parla di lui, che mi mostra le sue foto, nel suo sguardo trovo qualcosa di indicibile. Non è romanticismo a buon mercato: è stima, affetto, ammirazione, sicurezza, protezione... e molto, molto di più; un bagliore di immensità, una briciola di infinito; la sicurezza che possa esserci qualcosa resiste per sempre, nonostante tutto. Per questo, ogni volta che mia nonna parla di lui sorride. Quel sorriso mi sconvolge, perché mette in cristi tutto e, mio malgrado, mi spinge a desiderare qualcosa in cui non credo, ma che forse c’è».
Desiderare qualcosa che forse c’è. Forse è questa l’origine della domanda di senso che ogni persona porta con sé, quella domanda di senso che la scuola è chiamata a risvegliare in ogni studente. Forse l’amore non può essere spiegato proprio per questo: perché non può essere rinchiuso nella gabbia di alcuna definizione; perché, più che tracciare confini, li mette in crisi, li infrange, schiude orizzonti.
Insegnante e scrittore