Gentile direttore, in questo periodo di paure degli stranieri, di preoccupazione per paventate invasioni dal Sud del mondo, di insicurezza sociale cavalcata da alcuni partiti politici, di scarsa attenzione alla "cura" dei più deboli con continui tagli economici, ecco un piccola storia di bene. Sono un medico e lavoro in Lombardia. È un giovedì affollato in studio con mamme e bimbi. Sono le 10 del mattino e già in ritardo sulla tabella di marcia. Chiama l’assistente sociale del paese. Dimmi, rispondo, sperando sia breve. Un mio piccolo paziente dall’ospedale locale verrà trasferito in un grosso nosocomio per complicanze. La famiglia straniera è in difficoltà a lasciare le altre figlie. La prima è scolara, la seconda non cammina ancora. Che fare? Scarico il file di dimissione dell’ospedale. Leggo. La situazione è urgente. Riprendo il lavoro, pensando, mentre ascolto storie di febbri e tossi, quali famiglie contattare per un affido temporaneo, ma urgente. A fine ambulatorio faccio un giro di telefonate a persone sensibili forse disponibili. È difficile esser convincenti a prendersi subito in casa un minore straniero, sconosciuto. Sono fortunata. La donna rintracciata è casalinga, impegnata nel sociale e subito accenna di lettino, box e disponibilità dal giorno successivo. Ha già seguito nipoti piccoli e avvisa che sposterà appuntamenti sociali, impegni e riorganizzerà la famiglia già numerosa. Bene, per la piccola ci siamo. Ora la grande. Un’amica affidataria mi rigira il numero di una donna che partecipa agli incontri sull’affido. Vedendo l’esperienza positiva anche se faticosa di altre coppie, aveva dichiarato che il prossimo bimbo in difficoltà l’avrebbe ospitato lei. La chiamo. Spiego, cerco di convincere. Non c’è bisogno. Si rende subito disponibile, avvisa che essendo in mobilità chiederà in fabbrica di non lavorare l’unica settimana di aprile che le spetta e nella quale percepisce un misero stipendio. Resto ammirata. Poi mi chiede del pulmino per il trasporto a scuola, del cibo perché la famiglia è musulmana, del letto che preparerà. Sento che ha detto sì prima col cuore, poi con la mente. Richiamo l’assistente sociale. Domani convocherà le due donne, poi si inizierà l’affido. È sera. Torno a casa stanca, ma contenta. In meno di dieci ore una storia complicata si è risolta per la disponibilità di due donne generose. Spero per la salute del piccolo in ospedale. Forse è proprio vero che la cura è una prerogativa prettamente delle donne, che l’animo femminile risponde prima con il cuore e poi con la testa (le ragazze di oggi parlano di scelte "di pancia", ma penso che la scelta sia presa da qualcosa che sta un po’ sopra all’addome!), che le professioni di cura – come scriveva bene Edith Stein quando era ancora filosofa – sono quelle più indicate per le donne. E se nella cura dell’ambiente urbano, delle scelte energetiche o nelle politiche comunali, nei posti decisionali dello Stato nei quali di discute di minori, famiglia, disabili, ecologia ci fossero più donne per metter la propria sensibilità e attenzione, la propria cura nelle scelte sociali, tralasciando polemiche di partito, non ci sarebbe una società più umana e forse più giusta? Sono troppo "di parte", direttore?
E. M.
No, cara e gentile amica, non è troppo "di parte". Lei dice cose molto vere e ci offre – con una richiesta di riserbo che comprendo – riflessioni molto intense. Risponderò alla sua ultima domanda con una citazione a memoria. C’è un canto degli indiani d’America che mi piace molto, che mi abita dentro con la sua visionaria e struggente carica di verità da quando ero ragazzo. Sbaglierò qualche parola, ma sono sicuro di proiettarne il senso: «Gli uomini armano le mani, gli uomini vanno in guerra, gli uomini uccidono… Donne come cambierete tutto questo? Gli uomini lottano, gli uomini versano sangue, gli uomini provocano il pianto dei piccoli… Donne che farete per cambiare tutto questo?». È un canto "femminile", e quelle domande – apparentemente rivolte solo alle donne ma assillanti soprattutto per gli uomini – somigliano alla sua. Da quando le ho incontrate mi tornano spesso in mente. E, anno dopo anno, le emozioni anche contrastanti che avevano suscitato in me, si sono fatte constatazioni. Vorrei insomma dirle – da uomo, da padre di famiglia e da giornalista – che mi sono reso conto, sempre più e sempre meglio, che è certamente una società migliore quella nella quale riescono a emergere e a insediarsi nelle logiche portanti e nelle "direttive" di sistema le capacità e il potere di cura delle donne, che lei richiama ed esemplifica così efficacemente. È migliore perché quella capacità e quel potere non solo integrano le doti e le abilità maschili, ma in certi casi le convertono. È migliore perché una società "pari" – che riconosce il «genio femminile» e gli è risconoscente – è più orientata alla solidarietà, tende a essere attenta, pacifica e tenace come una famiglia forte e generosa di sé.Grazie, cara dottoressa, per averci regalato, in presa diretta, un’altra bella storia scritta da un’Italia altrettanto bella e verissima. Un’Italia – anzi un profondo Nord d’Italia – dove il "bene" accade non perché sia facile e comodo, ma semplicemente perché è giusto e umano che sia così.