Mosè vide che il Signore scriveva la parola "Longanime" nella Torah e domandò: «Questo significa che tu sei paziente con
i devoti?». «No, io lo sono anche con gli empi». «Come? – esclamò Mosè – Gli empi meritano di morire». L’Eterno non replicò.
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei
Anche nelle storie più grandi arriva l’ultimo capitolo. Qualche volta è il capitolo più bello, sempre è il distillato dell’intera vita. Ma mentre nei romanzi il bravo lettore sa individuare il momento in cui la linea del racconto subisce l’ultima torsione e si avvia alla conclusione, quando proviamo a leggere il nostro libro che stiamo scrivendo, non siamo quasi mai capaci di cogliere il momento dell’inizio del declino, e cambiare. Perché, semplicemente, amiamo troppo la vita e le sue parole, e perché amiamo troppo le illusioni. E così, l’ultima pagina ci coglie sovente impreparati, perché non siamo riusciti a inserirla all’interno dell’ultimo capitolo, che le avrebbe dato ritmo e senso. Perdiamo la trama della storia, e qualche volta ci smarriamo.
Tutto ciò è particolarmente rilevante e tragico quando abbiamo a che fare con i "re", con i leader, soprattutto con i capi carismatici e con i fondatori di comunità e movimenti spirituali e ideali, cioè con persone portatrici di un carattere di fondazione e di guida morale di altri. Qui è davvero cruciale che il "re" riesca a capire quando è giunto il momento di "smettere di scendere nel campo di battaglia", per entrare in una nuova dimensione della vita individuale e collettiva. È questa l’età della "custodia della lampada", quando la comunità o l’organizzazione deve – o dovrebbe – chiedere al proprio fondatore di diventare memoria e segno vivente del carisma e dell’ideale, di mettere in secondo piano la sua persona perché il primo posto l’abbia la luce che emana dalla lanterna. L’esperienza più importante di un fondatore e della sua comunità è infatti la consapevolezza della distinzione, che deve essere netta ed esplicita, tra la luce e la custodia della luce. Nel corso della vita questa distinzione a volte sfuma, e la comunità confonde la realtà illuminata (il fondatore) con la luce e la sua sorgente. Ecco allora che il riposo dell’ultimo capitolo può essere decisivo per il futuro della comunità, per fare alla fine quanto non si è fatto durante. Quando invece questa fase non arriva, o arriva troppo tardi, il re rischia di morire in battaglia e, cosa ancora più grave, la luce della lanterna rischia seriamente di estinguersi con la morte di chi l’aveva accesa. La luce potrà continuare a illuminare dopo di noi se doniamo a noi stessi e alla comunità un tempo ultimo e diverso. Perché è proprio in quel tempo mite e umile di custodia della fiamma dove un "re" dice con la carne che lui non era la luce, ma soltanto il suo custode.
«I Filistei mossero di nuovo guerra a Israele e Davide scese con i suoi servi a combattere contro i Filistei. Davide era stanco, e Isbi-Benòb, uno dei discendenti di Rafa... manifestò il proposito di uccidere Davide; ma Abisài, figlio di Seruià, venne in aiuto al re, colpì il Filisteo e lo uccise. Allora gli uomini di Davide gli giurarono: "Tu non uscirai più con noi a combattere affinché non si spenga la lampada d’Israele"» (Samuele 2 21,15-17).
Davide è stanco, ma scende ugualmente in campo. Lì mette a rischio la sua vita, e sono i suoi generali a fargli un giuramento solenne, una sorta di nuovo patto che segna l’inizio dell’ultima stagione di Davide, il suo progressivo ritiro dal governo che aprirà la strada a suo figlio Salomone.
Qui il "popolo" vede quella stanchezza nuova e diversa e pronuncia una promessa. Nella storia di Davide è un giuramento a segnare questa fase, una promessa pronunciata per iniziativa dei suoi generali. Nel testo Davide non risponde; quel giuramento opera unilateralmente per la sola forza della parola pronunciata dai soli rappresentati del popolo. Nella vita delle comunità qualche volta ci sono patti analoghi, dove a prendere l’iniziativa è la comunità. I re non sono quasi mai nelle condizioni di comprendere che sono "stanchi", perché questo tipo di stanchezza carismatica è vista solo dalle persone che sono vicine al capo. È una stanchezza relazionale, e i membri della comunità, se sono onesti e non ruffiani, hanno il dovere di prendere l’iniziativa e far entrare il re nell’ultimo capitolo. Non sono scelte facili, e sono sempre dolorose, perché la comunità è abituata ad ascoltare e seguire, e perché il confine tra questa promessa e la congiura non è affatto semplice da individuare – dietro a comunità che non sono sopravvissute al proprio fondatore ci sono congiure confuse con promesse e accolte dal re, e promesse confuse con congiure e respinte.
Segue poi il racconto delle gesta eroiche di alcuni dei guerrieri di Davide, dove troviamo anche una versione diversa dell’uccisione di Golia per mano non di Davide ma di Elcanàn (21,19) – la Bibbia qui non ha paura di mostrare al culmine della vita di Davide una smentita di uno dei miti fondativi del suo eroe. Quindi giungiamo all’unico salmo di Davide riportato integralmente nei Libri di Samuele. È un salmo lungo e intenso, che occupa l’intero capitolo 22. Il redattore lo ha messo a conclusione della vita di Davide, come testamento e sigillo. È l’inizio del suo ultimo capitolo, il tempo del ringraziamento a Dio, alla vita, ai compagni. Può anche essere il tempo dei salmi, per i poeti come Davide e per ciascuno nel suo proprio linguaggio – ci sono salmi splendidi composti con i nomi dei figli e dei nipoti, con le fedeltà e le lealtà silenziose, sussurrando soltanto un’Ave Maria perché tutte le altre preghiere le avevamo dimenticate: l’ultimo salmo della vita non può essere privilegio dei poeti.
Eccone alcuni versi: «Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio... Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque, mi liberò da nemici potenti, da coloro che mi odiavano ed erano più forti di me... Il Signore mi tratta secondo la mia giustizia, mi ripaga secondo l’innocenza delle mie mani, perché ho custodito le vie del Signore, non ho abbandonato come un empio il mio Dio... Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro... Per questo ti loderò, Signore, tra le genti e canterò inni al tuo nome» (22,2-50). E al centro del salmo troviamo: «Signore, tu sei la mia lampada; il Signore rischiara le mie tenebre» (22,29). Davide ha imparato che la lampada d’Israele non era lui, e per questo al termine della sua vita la può custodire (ogni custodia richiede l’alterità della cosa custodita).
Sono molti i sentimenti che si intrecciano nell’anima leggendo questo grande salmo. Davide era un cantante e suonatore di cetra, e anche in questa sua anima artistica sta l’affetto con cui l’intera Bibbia lo ha ricolmato. Anche questa sua preghiera poetica intensa ci ammalia e ci conquista. Ma quando proviamo a leggere i contenuti del canto dobbiamo provare a dire anche altre parole.
Sono sempre stati molti i credenti che hanno usato Dio per dare un crisma sacrale alle proprie vittorie e ricchezze. La "teologia della prosperità" ha radici bibliche antiche, e questo perché la Bibbia, essendo immensa, si presta anche a essere abusata e manipolata (come tutte le cose davvero belle e immense della vita). La Bibbia ha avuto bisogno di geni teologici e di molto tempo per riuscire a comprendere che stare dalla parte di Dio non significa stare dalla parte dei vincitori, e che il Dio nostro, quello dei nostri amici e quello dei nemici, è lo stesso Dio – perché se non fosse lo stesso Dio, anche YHWH, il Dio vero e diversissimo, sarebbe un idolo. E se il Dio dei perdenti è lo stesso Dio dei vincenti, se il Dio dei poveri è lo stesso Dio dei ricchi, se il Dio dei sani è lo stesso Dio dei malati, se il Dio dei forti è lo stesso Dio dei deboli, allora un messaggio che ci arriva dalla Bibbia (e dalle religioni non idolatriche) è la laicità di Dio. Perché Dio va lasciato fuori dai nostri affari e dalle nostre guerre, dalla nostra salute e dalle malattie nostre e degli altri, dalle nostre Borse e dalle speculazioni finanziarie. Possiamo trovarlo ovunque, in tutto e in tutti, ma non è il Dio biblico se lo troviamo soltanto dalla nostra parte.
La storia di Israele dopo Davide insegnerà al popolo ebraico che il loro Dio sarà un Dio sconfitto, il suo popolo eletto un popolo deportato, il suo tempo invincibile un cumulo di macerie, e la forza di YHWH sarà simboleggiata da un bambino e da un "piccolo resto" fedele. Ma da quell’esilio fioriranno i canti del servo sofferente di YHWH (Isaia), e molte grandi parole profetiche. Senza l’esilio e senza quella grande sconfitta non avremmo mai avuto Giobbe e Qohelet, che ci hanno donato altri volti veri del Dio biblico.
Il salmo di Davide è anche un perfetto esempio di religione retributiva («Il Signore mi tratta secondo la mia giustizia, mi ripaga secondo l’innocenza delle mie mani»). E quando sono i vincitori, i potenti e i ricchi a dire le parole del salmo di Davide, l’esperienza della fede è sempre messa a rischio. Perché è molto facile passare dal ringraziamento per la vittoria e per le ricchezza a pensare "siccome ho vinto e sono ricco, allora Dio è con me", e poi magari aggiungere: "Dio non sta con chi non vince ed è povero". E la fede si guasta, diventa uno strumento di condanna e di maledizione dei poveri, dei perdenti, dei credenti di un Dio diverso.
I salmi di lode di Davide al Dio vittorioso devono essere meditati insieme ai canti del Dio sconfitto, in lettura sinottica. E se quando intoniamo il canto di Davide per le nostre vittorie non lo facciamo con l’anima e lo sguardo fissi sui canti diversi gridati e urlati dai disperati e dagli scartati, stiamo parlando con Baal anche se lo chiamiamo Dio o Gesù. Un test per la verità di ogni preghiera è provare a recitarla accanto alle vittime della terra, senza vergogna.
Il salmo di Davide è anche il canto della fede giovane e adolescente, quando pensiamo che il patto con l’unico Dio vero ci assocerà alle sue vittorie, e così ci sentiamo onnipotenti – il fascino e il mistero della religione sta anche nella sua capacità di farci assaggiare l’ebbrezza dell’onnipotenza. Poi si cresce, ci si ritrova impotenti e fragili perché adulti, e spesso si perde quella prima fede se proprio lì, in esilio e senza tempio, non arriva il dono di un nuovo rapporto con un Dio che ci risorge stando, in silenzio, con noi sullo stesso mucchio di letame, e accompagnando il nostro grido, come fece con il grido del figlio, la preghiera più bella di tutte. Per arrivare, infine, all’ultimo capitolo e lì ritrovare la stessa voce della prima pagina.
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