La prima parola pronunciata da Dio sul Sinai fu Anoki: "Sono Io". In questo caso l’Eterno non usò l’ebraico bensì la lingua egizia: come quel re si rivolse al figlio che tornava a casa dopo un lungo periodo trascorso in mare, parlandogli nella lingua da questi appresa in terra straniera, così l’Eterno scelse l’idioma che Israele parlava a quell’epoca.
Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei
Il racconto della costruzione del tempio di Salomone è il centro narrativo e teologico dei Libri dei Re e dell’intera storia sapienziale che dalla Genesi arriva fino alla distruzione di Gerusalemme e all’esilio. Dobbiamo leggere queste pagine sapendo che stiamo entrando in un terreno diverso e sacro, e quindi toglierci i calzari dai piedi se vogliamo riconoscere la voce di questo roveto. Il racconto narra fatti svoltisi circa cinque secoli prima di quando fu composto il testo. Chi lo ha scritto viveva durante l’esilio in Babilonia. Il tempio che aveva visto era dunque quello appena distrutto e incendiato da Nabucodonosor. Gli ori, quelli fusi dal fuoco o quelli degli arredi spezzati dai babilonesi e trasportati nei loro templi. Di tutta quella bellezza che tra poco leggeremo non era rimasta pietra su pietra.
Per intuire lo spirito di queste pagine difficili proviamo a fare un esperimento intellettuale. Immedesimiamoci con l’anima di un uomo che oggi deve realizzare un video mettendo insieme vecchi spezzoni di riprese del suo matrimonio e della festa di nozze. La moglie non c’è più, è andata vita. La separazione è avvenuta a causa della sua (del marito) condotta sbagliata, per i suoi tradimenti – è questa la lettura teologica che quegli scrittori davano della distruzione del tempio e dell’esilio. Lei, «la delizia dei suoi occhi» (Ezechiele), non c’è più, ed è solo e tutta colpa sua. E poi, con questi sentimenti, quell’uomo rivede nel video quanto buona e bella fosse quella sposa (la parola ebraica tov – bello e buono – ricorre molte volte in questi capitoli). Con una sorpresa finale: la Bibbia ci dirà che quella sposa, rimasta fedele, non solo potrà tornare a casa ma potrà tornare bella come appare nel video delle nozze. E mentre ci regala questa speranza, si fa compagna nei nostri non-ritorni e nelle visioni solitarie e disperate dei nostri filmini.
La narrazione della costruzione del tempio inizia con una descrizione che ricorda molto da vicino la condizione degli ebrei nelle fabbriche di mattoni dell’Egitto: «Il re Salomone arruolò da tutto Israele uomini per il lavoro forzato e gli uomini del lavoro forzato erano trentamila» (1 Re 5,27). Le grandi opere delle antichità (e forse anche molte delle nostre) dovrebbero essere raccontate dai lavoratori che le hanno realizzate. Anche quando con il lavoro coatto si costruiscono cattedrali, non possiamo consolarci con il bello e antico racconto Il pellegrino e i tre spaccapietre, dove il terzo spaccapietre rispose: «Sto costruendo una cattedrale». Anche se la maggior parte delle decine di migliaia di uomini di Salomone avessero saputo che stavano spaccando pietre e lavorando per la costruzione del tempio più bello, non è vero che quella coscienza avrebbe tolto la disumanità e il dolore del lavoro forzato e non scelto (forse lo avrebbe solo attenuato in quale giorno diverso). Ed è bello e importante che la Bibbia abbia voluto scrivere e lasciarci questo sguardo dei lavoratori sulla sua opera più importante. Questi lavori forzati potevano non esserci. Un redattore successivo (sacerdote o scriba) ha cercato di emendare e cancellare questa parte (9, 22), perché a chi si gode templi e palazzi non piace ricordare il dolore di chi li ha costruiti, e fa di tutto per dimenticarlo e per farcelo dimenticare. E invece questi versetti sono sopravvissuti e sono diventati una "lapide al lavoratore ignoto", che senza averlo scelto ha edificato con il suo sudore e con le sue lacrime il tempio di Salomone e la parola biblica. Se vogliamo evitare di fare della Bibbia una lettura edificante per coltivare solo lievi pensieri pii e religiosi, di tanto in tanto dobbiamo leggere questi grandi racconti dalla prospettiva delle vittime nascoste.
Insieme al lavoro coatto, all’inizio della costruzione del tempio troviamo anche un contratto. Salomone per la costruzione del tempio ricorre allo strumento più adeguato, un accordo di reciprocità con Chiram, il ricco re di Tiro: «Chiram mandò a dire a Salomone: "Ho ascoltato ciò che mi hai mandato a dire; io farò quanto tu desideri riguardo al legname di cedro e al legname di cipresso"... Chiram diede a Salomone legname di cedro e legname di cipresso, quanto ne volle» (5, 22-24). Da parte sua, «Salomone diede a Chiram ventimila kor di grano, per il mantenimento della sua casa, e venti kor di olio puro; questo dava Salomone a Chiram ogni anno» (5,25).
Lavoro forzato e scambio commerciale, gerarchia e consenso, rapporti verticali e orizzontali: i due elementi che sono ancora alla base del nostro sistema economico. Le opere, piccole e grandi, continuano a essere realizzate grazie a soggetti più forti che riescono a orientare il lavoro di persone più deboli, per il soddisfacimento dei desideri di chi scambia, in rapporti di uguaglianza e reciprocità. Ma, anche qui, non vediamo e narriamo la libertà e l’uguaglianza degli scambi commerciali, e non vediamo o non narriamo la tanta non-reciprocità e i molti obblighi che si celano dentro lo scambio tra merci. Indossiamo magliette, scarpe, borse, mangiamo pomodori e pasta, usiamo smartphones e tablet, affidiamo i nostri risparmi alle banche..., scambiando su un piano di libertà e di (una certa) uguaglianza. Però non riusciamo (o non vogliamo) vedere i volti dei lavoratori che hanno prodotto quei beni, che hanno edificato le nostre piccole e grandi cattedrali. Vediamo troppo le merci (perché c’è tutto un impero economico-finanziario che lavora giorno e notte perché le vediamo), ma vediamo troppo poco le persone nascoste dentro l’involucro delle cose che consumiamo. La Bibbia ogni tanto riesce a farci intravvedere volti di uomini e donne, perché noi, una volta chiusa la Bibbia, iniziamo a cercarli e vederli nei nostri mercati.
«L’anno quattrocentottantesimo dopo l’uscita degli Israeliti dalla terra d’Egitto, l’anno quarto del regno di Salomone su Israele, nel mese di Ziv, cioè nel secondo mese, egli dette inizio alla costruzione del tempio di YHWH. Il tempio costruito dal re Salomone per il Signore aveva sessanta cubiti di lunghezza, venti di larghezza, trenta cubiti di altezza» (6,1-2). Una costruzione grande – un cubito ebraico misurava circa 44 cm –, ma soprattutto ricca, bella e di grande valore: «Tutto era di cedro e non si vedeva una pietra. Eresse il sacrario nel tempio, nella parte più interna, per collocarvi l’arca dell’alleanza del Signore... Lo rivestì d’oro purissimo e vi eresse un altare di cedro... E d’oro fu rivestita tutta la sala in ogni parte, e rivestì d’oro anche l’intero altare che era nel sacrario» (6,18-22).
Incontriamo anche un artista, chiamato per nome: «Il re Salomone mandò a prendere da Tiro Chiram, figlio di una vedova della tribù di Nèftali; suo padre era di Tiro e lavorava il bronzo. Era pieno di sapienza, di intelligenza e di conoscenza, per fare ogni genere di lavoro in bronzo» (7,13-14). Chiram è un nuovo Besaleel, l’artista che nell’Esodo aveva decorato il tabernacolo (Es 31,2-3). Molto belle le tre parole con le quali il testo qualifica questo artista lavoratore del bronzo: pieno di sapienza, di intelligenza e di conoscenza (competenza e perizia). La creatività artistica (e ogni creatività) ha bisogno di sapienza (nell’accezione biblica del termine), che è dono squisitamente spirituale, ma richiede anche intelligenza, cioè talento naturale, insieme alla competenza. Si può iniziare a dipingere e scolpire con solo una di queste qualità (ogni vocazione matura si attua nel tempo), ma la vocazione artistica si compie e porta grandi frutti solo quando sapienza, intelligenza e competenza lavorano e creano insieme.
Chiram «modellò colonne di bronzo... Fece il Mare, un bacino di metallo fuso di dieci cubiti da un orlo all’altro, perfettamente rotondo... Questo poggiava su dodici buoi; tre guardavano verso settentrione, tre verso occidente, tre verso meridione e tre verso oriente. Il Mare poggiava su di essi» (7, 15-25).
Dopo il tempio («Lo edificò in sette anni»: 6, 38), il re costruì la sua reggia: «Salomone costruì anche la sua reggia e la portò a compimento in tredici anni. Costruì il palazzo detto Foresta del Libano. Di cento cubiti era la sua lunghezza, di cinquanta cubiti era la sua larghezza e di trenta cubiti era la sua altezza» (7, 1-2).
Il tempio era lungo sessanta cubiti, la reggia cento; il tempio era largo venti cubiti, la reggia cinquanta. I re, anche i più saggi, quando iniziano a edificare il tempio per lodare e magnificare Dio, finiscono per fare palazzi reali più grandi dei templi. Magari in buona fede, spesso con buone ragioni, la reggia supera il tempio in lunghezza e in larghezza (magari non in altezza, per non essere più alti dell’altissimo ma, modestamente, soltanto allo stesso livello). È questo un altro indizio che ci dice che la costruzione del capolavoro di Salomone fu anche l’inizio della sua corruzione.
L’anima sapienziale dei Libri dei Re, molto dura con la monarchia e con i re d’Israele, sa leggere molte cose in questa reggia che eccede il tempio in grandezza. L’autore di queste pagine forse è lo stesso autore delle pagine della Genesi e dell’Esodo sui giorni del primo amore di Israele, quando c’erano solo una nuda voce, una tenda, e un arameo errante partito credendo a una promessa.
Ogni vita buona inizia da una voce che ci chiama quando siamo poveri e semplici, e si parte alla sequela di quella voce e della sua promessa. Poi, col tempo, arrivano il culto, la religione, la costruzione del tempio, e infine la reggia per noi più grande del tempio per Dio. E inizia la decadenza. Avevamo speso tutta la vita a costruire il nostro culto, il "tempio" e la "reggia", e tutti ci avevano lodati e amati per queste opere. Finché un giorno riusciamo a capire che la libertà, la verità, l’amore si trovavano altrove, ma lo avevamo dimenticato. Un’altra voce ci sorprende nella notte, in un sogno o in un letto d’ospedale. È la voce del primo giorno, e riusciamo a riconoscerla. Ci ordina di smontare la reggia, il tempio, di tornare poveri e rimetterci in cammino. La salvezza della vita adulta è il cammino a ritroso che dalla reggia riporta alla tenda nomade. Perché le voci sottili di silenzio non si possono ascoltare negli alti templi e nei larghi palazzi. Riescono a parlare solo quando si trovano esattamente all’altezza degli occhi e del cuore.
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