«Chiunque legga la Bibbia non può evitare l’impressione che col sopraggiungere di Geremia è come se una diga avesse ceduto in un punto decisivo. Vi si avverte qualcosa di nuovo, una dimensione di dolore finora sconosciuta»
Gerhard Von Rad, Teologia dell’antico testamento
«Mi fu rivolta la parola di YHWH: "Non prender moglie, non avere figli né figlie"» (Geremia 16,1). Ecco un’altra svolta narrativa e spirituale del canto e della vita di Geremia, splendida e tremenda. Geremia per vocazione non avrà moglie, e non avrà né figli né figlie. Il doppio comando scandisce e rafforza le due solitudini radicali di Geremia: dovrà vivere senza moglie e vivere senza figli e senza figlie (la gioia, lo splendore e i dolori che ci danno le bambine e le figlie non sono sostituti di quelle dei bambini e figli, e viceversa). In questa processione – moglie, figli, figlie – possiamo forse leggere uno sguardo concreto, non generico, su quelle gioie diverse e altrettanto concrete che egli non conoscerà per speciale vocazione. Altri profeti biblici hanno vissuto esperienze in parte simili a quelle di Geremia. Le vite di Isaia e Osea sono state dei segni totali, globali, parole fatte simbolo-carne. Le loro vocazioni avevano coinvolto profondamente la loro famiglia. Isaia chiama suo figlio "un resto tornerà", e il cuore della sua profezia diventa il nome del figlio. Osea riceve da Dio il comando di sposare una prostituta, e anche qui per dire-essere un messaggio al popolo: vi siete prostituiti ad altri dèi. Fatti e azioni tremende, quando il dolore e lo strazio diventano troppo grandi e le sole parole, anche quelle immense dei profeti, non bastano più.
A Geremia, invece, la voce chiede qualcosa di ancora più radicale: essere segno e presagio rinunciando completamente alle cose più benedette e sacre. Nel suo mondo la scelta di non sposarsi e non avere figli era un atto scandaloso e soprattutto senza alcun senso. In ebraico manca anche la parola per dire "celibato". Era semplicemente una pazzia, una stupidaggine, ridicolo. Tanto che questa richiesta a Geremia non ha equivalenti nell’Antico Testamento. Per intuire qualcosa del paradosso di quel comando, occorrono tutta la Bibbia e l’esperienza di tutta una vita. Dobbiamo tornare ad Abramo, alla promessa di figli numerosi come le stelle del cielo. Alla sterilità di Sarah, ad Agar e Ismaele, e poi a Isacco, a Rachele e Lia, a Giobbe, all’Alleanza, al Cantico e al linguaggio nuziale nella Bibbia, molto amato e usato anche da Geremia. In quel mondo la prima benedizione è la benedizione dei figli e delle figlie, nessuna terra è la terra promessa se non c’è almeno un nostro bambino ad abitarla e a nutrirsi della sua panna e del suo miele. Nell’umanesimo biblico l’unico paradiso desiderato è poter continuare a vivere nei figli e nella loro memoria per molte generazioni. L’altra vita migliore in cui si spera non è la nostra in cielo ma quella dei figli sulla terra. E poi dovremmo tornare ai primi capitoli della Genesi. A quell’adam creato "maschio e femmina", che insieme dicono veramente l’immagine di Dio, l’unica lecita sulla terra, talmente bella che tutte le altre deturpano l’immagine di Elohim perché deturpano l’immagine dell’adam. A quando quel primo uomo risvegliandosi dal torpore incrociò per la prima volta occhi come i suoi, e forse intonò la prima canzone della terra: "Ora sì, ora sì ...", finalmente ho trovato un ezer kenegdò: occhi negli occhi, occhi come i miei eppure tutti diversi». La donna giunge come dono e risposta a una delle frasi primissime dell’antropologia biblica: «Non è bene che l’adam sia solo».
Allora in questo grande capitolo del libro e della storia di Geremia, Dio gli chiede di ritornare nella solitudine triste dell’aurora del mondo prima del "due o più". Geremia deve, per una parola di YHWH, smentire e rinnegare una delle sue parole più belle ed eterne. Quel "non è bene" vale per ogni umano, ma non per Geremia. E lo stupore non termina qui: «Così YHWH mi ha parlato: "Non entrare in nessuna casa in lutto, non andare ai lamenti e non dimostrare loro nessuna compassione"» (16,5). Partecipare ai funerali, piangere, visitare la famiglia del defunto nel lungo tempo del lutto, erano pratiche sociali primarie, che creavano e rinsaldavano i legami sociali, accrescevano la solidarietà e la fraternità. Non assolvere a queste pratiche significava isolarsi ed essere visto dagli altri come persone bizzarra e nemica. Ma l’elenco delle proibizioni di Geremia non è ancora completo: «Non entrerai neanche in una casa dove ha luogo un banchetto, non ti siederai a mangiare e bere con loro» (16, 8). Dio vuole allora per lui una vita in totale solitudine: senza famiglia, senza figli, senza amici, senza festa, senza comunità, senza consolazione. Perché? Il testo ci dà una sua interpretazione: Geremia deve anticipare con il suo corpo, con le sue relazioni sociali, con la sua carne la condizione che presto sarà di tutto il popolo, che sta per essere deportato, dove finiranno i banchetti di festa, dove non si potranno seppellire adeguatamente neanche i morti né celebrare i riti del lutto. Deve diventare simbolo incarnato.
Ma questa spiegazione non ci basta. Che senso ha incarnare una rovina totale, anticipando con la propria vita la sventura che sarà di tutto il popolo? E a che giova essere un segno se nessuno lo capisce, e lo sbeffeggiano e ridicolizzano? Non dimentichiamo che il senso globale del libro di Geremia non suggerisce che lo scopo dei segni forti sia la conversione del popolo. Né ci può soddisfare pensare che lo scopo del libro di Geremia potrebbe essere una lettura teologica ex-post degli eventi disastrosi della deportazione in Babilonia, che per salvare la giustizia di Dio addossa tutta la colpa della sventura alla corruzione e all’idolatria del popolo. È tutto troppo poco, troppo semplice, non all’altezza del suo libro. Conviene allora lasciar parlare questo capitolo XVI, farlo entrare dentro la nostra vita oggi, e entrare in dialogo con Geremia, facendoci noi suoi contemporanei. E se ci mettiamo nudi e liberi di fronte a questo capitolo, possiamo, forse, intravvedere tra la nebbia alcune dimensioni paradossali ma vere e essenziali che si ritrovano in molte vite vissute come vocazione.
Il giorno in cui Geremia ricevette la sua prima chiamata non sapeva che sarebbe arrivato il momento di questa seconda chiamata (nel racconto della sua vocazione nel primo capitolo non c’è alcun accenno al non sposarsi). Oggi, invece, quando qualcuno risponde a una vocazione religiosa qualche volta sa da subito che non si sposerà e non avrà figli e figlie. Ma, anche oggi, nel giorno della chiamata, quando si è avvolti dalla luce abbagliante della voce, anche se sappiamo in astratto di rinunciare a moglie/marito, figli e figli, in realtà non stiamo rinunciando ancora a niente di reale – anche se molte vocazioni si inceppano perché, per paura, si fermano a quella prima rinuncia astratta, e non conoscono la generatività che solo la rinuncia concreta ottiene. Ma quando la vita funziona, è molto probabile che arrivi il giorno del capitolo XVI di Geremia, quando quell’idea astratta diventa concreta e si incarna. Arriva quando si conosce un uomo concreto che potrebbe veramente diventare un marito, quando un giorno davanti ad un bambino si sente nella carne l’indigenza per la paternità mancata, di essere circondati da cento figli e figlie, ma i nostri non ci sono mentre potevano esserci. Lì, non nel giorno del primo incanto luminoso dieci o trenta anni fa, ci raggiunge chiara e forte la parola: "Non ti sposerai, non avrai né figli né figlie". E si può rispondere ancora e diversamente: sì.
Quando si segue veramente una vocazione e non si rinuncia a vivere la vita per la delusione o per l’illusione, prima o poi arriva quasi inevitabilmente la tappa del capitolo XVI. Diventiamo come Geremia, ma non ce ne accorgiamo, perché il processo è lento e lungo. Ci si ritrova ad incarnare dei messaggi dei quali non siamo padroni. Possiamo ribellarci, oppure dire "sì" e prestare corpo e vita per scrivere un capitolo di un libro di cui non conosciamo né la trama né, tantomeno, il finale. Nel suo mondo e nel suo tempo Geremia non poteva capire il senso di quelle cose tremende che la voce gli chiedeva. Il libro di Geremia ci offre qualche interpretazione, ma l’uomo Geremia di Anatot avrà avuto molte meno interpretazioni dei redattori finali del suo libro, forse non ne aveva nessuna. Ha solo udito, chiarissima, una voce che gli chiedeva qualcosa di paradossale, e ha detto: "va bene". I simboli non svolgono il loro compito perché conoscono il proprio significato: qualche volta hanno qualche bagliore di senso, ma quasi mai il simbolo è un buon ermeneuta di se stesso. I grandi simboli della Bibbia e della vita di ciascuno non sono mai spiegati e rivelati una volta per tutte, e per questo continuano a parlare e spiegarsi nel tempo e in ogni tempo. Non siamo noi, nel nostro mondo e nel nostro tempo, i migliori interpreti dei simboli che siamo chiamati a diventare.
La Bibbia è rivelazione anche perché, qualche volta, toglie il velo che ci separa dal senso delle sue parole e da quello delle nostre esperienze più importanti. Lo toglie per un po’ e poi lo rimette, ri-velandole, per custodire l’intimità dei suoi grandi racconti di amore e di dolore, e per custodire il mistero del nostro cuore. Non è necessario conoscere e spiegare tutto il senso e tutti i sensi dei comandi paradossali del capitolo XVI, perché quelle sue parole continueranno a cantare finché i loro significati saranno più numerosi e più grandi delle nostre domande e delle nostre risposte. La Bibbia rigenera finché i suoi sensi sono eccedenti rispetto alle nostre interpretazioni. Il paesaggio della terra trovata non è quello della terra promessa. Tante cose che pensavamo ci fossero non ci sono – non c’è la comunità che ci immaginavamo ma solo quella che abbiamo, non c’è la felicità che cercavamo, perché vivendo abbiamo capito che è troppo poco. Ma abbiamo trovato molte sorprese, come il dono di scoprire la bellezza dove tutti vedono cose e persone brutte, una profonda e sobria fraternità con la terra, con gli animali, con le piante, che sboccia come fiore su una solitudine non scelta e docilmente accolta. Una vocazione è viva finché resta abbastanza libera di aggiornare continuamente la prima terra promessa. E quando capisce che è vicina la scomparsa dell’ultimo elemento superstite del paesaggio sognato, sa intonare il canto della grande benedizione.
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