Il secondo, più radicale, capo d’accusa è il monoteismo. L’uso strumentale della natura deriverebbe dall’abbandono delle religioni tradizionali panteistiche, che vedendo il sacro dappertutto avrebbero un naturale rispetto per ogni realtà materiale, per abbracciare una fede in un Dio unico e trascendente. Arnold J. Toynbee, storico famoso per i suoi studi comparati sulla nascita e declino delle civiltà, nel 1972 pubblica un articolo sullo International Journal of Environmental Studies dove afferma: «Le religioni monoteistiche hanno tolto ogni freno all’avidità umana e sconvolto il tradizionale equilibrio tra uomo e natura. L’odierna crisi ecologica è ascrivibile all’ascesa del monoteismo. Il rimedio consiste nel ritorno al panteismo e alle religioni orientali».Ma è davvero il caso di difendersi da accuse tanto generiche quanto ideologiche? Dal lato teologico, nella Genesi, oltre al passo già citato, si trova il secondo racconto della creazione che recita: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Genesi 2,15). Non solo soggiogare, dunque, ma coltivare; non solo dominare, ma anche custodire. Non solo: come suggerisce il professor Fikret Berkes dell’University of Manitoba (Canada) in un interessante articolo nell’Enciclopedia della bio-diversità, ciò che conta davvero, nel rapporto tra l’uomo e la natura, non è tanto la "teoria" del rapporto, quanto i comportamenti reali. In altre parole, non contano tanto le teorizzazioni di etica ambientale ascrivibili a una certa tradizione culturale e/o religiosa, quanto la pratica quotidiana che questa tradizione realizza.
Come economisti ci troviamo a nostro agio in questa seconda linea: siamo abituati a misurare i comportamenti reali più delle dichiarazioni di principio, consapevoli di un vecchio detto della nostra professione che recita: «Le azioni parlano più chiaramente delle parole». Per questo motivo ci sembra utile segnalare un articolo, pubblicato su Fauna and Flora International nel dicembre 2013, scritto congiuntamente da G. Mikusinski e M Blicharska (dell’università di Grimsö, in Svezia) e da H.P. Possingham (dell’Università del Queensland, Australia) che studia la sovrapposizione geografica fra tradizioni religiose prevalenti e aree a elevata tutela della biodiversità. Lo studio riguarda le principali religioni e le principali tipologie di aree protette, identificate da organizzazioni internazionali, pubbliche e non governative. Queste aree includono i grandi ecosistemi forestali (Fao-Convention on Biological Diversity); le importanti aree aviarie (Birdlife International); i punti caldi di biodiversità (Myers e National Geographic Society); i Paesi con mega-diversità ambientale; le aree selvagge a elevata biodiversità (Conservation International); le cosiddette "eco-regioni critiche" (classificate dalla United Nations University); le 200 eco-regioni globali (Wwf).
Il risultato dell’indagine è molto chiaro: le aree ecologiche protette e le aree caratterizzate da una forte presenza di cristiani si sovrappongono significativamente. In particolare l’indicatore scelto in questa analisi – e cioè l’estensione, misurata in ettari, delle aree protette diviso per il numero di persone appartenenti a una specifica confessione religiosa (in altre parole il numero di ettari di area protetta pro-capite) – mostra una forte sensibilità ecologica dei cristiani, i quali presentano un numero di ettari pro-capite protetti superiore a quello delle altre religioni. Fra le denominazioni cristiane, il Cattolicesimo e l’Ortodossia registrano i migliori risultati. Una cartina dello studio (che pubblichiamo in pagina) mostra le aree di conservazione della biodiversità: il colore più scuro identifica le regioni che presentano più di un motivo di interesse ecologico. Se poi si calcolano gli ettari di area protetta pro-capite, a seconda della religione professata, il primato in termini di ettari pro-capite appartiene ai Cristiani Cattolici per tre tipologie, ai Cristiani Ortodossi per altre tre tipologie, al gruppo degli "altri Cristiani" (non protestanti) per la settima tipologia di area protetta. Curiosamente, le religioni orientali – quelle verso cui taluni "sapientoni" suggerirebbero di rivolgerci per approfondire la nostra consapevolezza ecologica – non sembrano affatto distinguersi (interessante, in questo senso, anche la tabella che riportiamo sulla conservazione della biodiversità globale nei territori in rapporto alle religioni).Bastano questi risultati per confutare una volta per tutte le generiche accuse di chi associa il cristianesimo allo sfruttamento della natura? Certo che no. Occorre anche tenere conto del reddito pro-capite della distribuzione geografica degli appartenenti a una certa confessione religiosa nei singoli Paesi; tuttavia essi dimostrano che quando si guarda ai fatti senza pregiudizi ideologici, il cristianesimo è ben diverso da come molti lo vorrebbero dipingere.