L’abolizione o quasi della protezione umanitaria per i richiedenti asilo costituisce una delle più gravose eredità della gestione Salvini per il governo Conte II. Come è stato più volte riferito sulle colonne di questo giornale, quella decisione sta gettando letteralmente per la strada migliaia di persone arrivate in Italia negli ultimi anni, soprattutto via mare e dopo aver subìto situazioni gravi e persino terribili. Si stima che siano circa 120mila le persone a rischio.
Per contro, le espulsioni effettive (non i decreti, che sono pezzi di carta) hanno colpito nel 2018 poco più di 5mila migranti, peraltro non necessariamente richiedenti asilo, denotando il fallimento delle politiche dei porti chiusi e delle porte chiuse in un loro passaggio decisivo. La lista dei Paesi sicuri approvata dal nuovo Governo per agevolare i rimpatri, al di là di altre considerazioni, non sarà risolutiva, perché molti Paesi di origine non sono compresi nella lista o non è detto siano disponibili a collaborare o comportano costi di rimpatrio elevati. Di fatto, i due decreti sicurezza varati nei mesi scorsi hanno l’effetto di trasformare delle persone che stavano seguendo percorsi d’integrazione in emarginati senza dimora e senza risorse, ma comunque circolanti sul territorio. Ora da Milano arriva una novità che accende una luce di speranza per una parte di loro. Una sentenza della Corte d’Appello ha salvato dal baratro Samba, giovane senegalese a cui era stato negato lo status di rifugiato, ma che nel frattempo aveva intrapreso un percorso positivo, imparato l’italiano, conseguito la licenza media.
Grazie al progetto europeo LabourInt, promosso in Italia dall’Anolf-Cisl di Milano, Samba ha frequentato un corso di formazione e poi praticato un tirocinio professionalizzante, ottenendo alla fine un contratto di lavoro per tre anni in un fast-food. La Corte d’Appello milanese ha ritenuto che negare a Samba la possibilità di rimanere legalmente in Italia ed eventualmente rimandarlo in Senegal avrebbe avuto gravi conseguenze per la sua integrità personale, escludendolo dai rapporti sociali costruiti nel frattempo e ributtandolo in uno stato di povertà tale da privarlo di diritti fondamentali, come l’accesso al cibo e a un tenore di vita dignitoso.
Se questa interpretazione delle norme si diffonderà, altri richiedenti asilo che nel frattempo si sono integrati nel lavoro e nella società italiana potranno rimanere e proseguire il loro percorso di speranza, aiutando fra l’altro i parenti in patria ed essendo utili alla nostra società e alla nostra economia. Ma per ora molti compagni di corso di Samba rimangono a rischio, pur avendo ottenuto un’occupazione e pur essendosi civilmente inseriti nella nostra società. Occorre dunque ripristinare a livello legislativo una forma di protezione umanitaria, almeno per i casi portati alla ribalta dalla sentenza milanese.
Ci si deve domandare che senso abbiano delle norme che trasformano gli integrati in emarginati e i lavoratori in mendicanti, le persone che si sono mostrate rispettose della legge in individui senza legge. È una domanda che pesa sul nuovo governo: serve il coraggio della discontinuità, e se necessario di una iniziale, forse inevitabile impopolarità. Non sempre le scelte giuste, razionali, benefiche per la società, sono anche scelte condivise da tutti, almeno nel breve periodo.
Ma non per questo diventano meno giuste. Un governo che ha l’ambizione di avviare un «nuovo umanesimo», come ha affermato Conte chiedendo la fiducia al Parlamento, dovrebbe coltivare le virtù della coerenza e del coraggio. E fermare l’applicazione di quella che proprio 'Avvenire' definì una triste e rischiosa «Legge delle strada».
Sociologo, Università di Milano e Cnel