In uno stabile milanese dalle parti del Sempione, quelle vecchie case in cui tutti si conoscono, una settimana fa un anziano condomino viene ricoverato in ospedale per Covid. Medico in pensione, vedovo da poco, due figli, lo si vedeva qualche volta con una nipotina, e fino a un anno fa con la moglie e, sempre, l’inseparabile cagnolino nero, che aveva adottato al canile. Anche adesso che era rimasto solo il dottor B. andava a fare la spesa, e al mercato. Un’eleganza d’altri tempi nel vecchio loden, ogni mattina comperava il suo giornale e col cane se ne tornava a casa, adagio. Un giorno invece lo vidi con 'la Padania' in tasca, e compresi che era politicamente in crisi. Però al mendicante nero all’angolo dava sempre una moneta, e diceva buongiorno. Un uomo garbato, disorientato da quella sua città che a poche centinaia di metri ora alzava le audaci torri di City Life. «Chissà perché – mi disse un giorno, osservandole mentre entrambi pascolavamo il cane all’aiuola – oggi devono costruire i grattacieli storti».
E dunque il dottor B. viene portato via una sera e se ne va solo, nel grido doloroso della sirena d’ambulanza. Per qualche giorno nel condominio nessuno ne ha notizie. Poi incontro il suo dirimpettaio e domando: come sta il dottor B.? Quello mi guarda: «Ma come, non sa? È morto ormai da tre giorni». Ah, rispondo io spiazzata, ma e il funerale, quando è stato? «Nessun funerale, sa, per via del Covid, è stata solo benedetta la bara...». Capisco, insisto un po’ smarrita, ma non ho visto nemmeno un annuncio di lutto sul portone... Il vicino allarga le braccia, non sa cosa replicare. Io rincaso incupita: è così che si può morire oggi a Milano. Non solo nella solitudine, ma nel silenzio assoluto. Nemmeno un biglietto in portineria. Semplicemente si scompare.
E non è un caso unico: un collega mi racconta di una giovane vicina straniera, madre di due bambini: anche per lei nessun annuncio di funerale, né un drappo nero sul portone. Mi domando: succede perché i familiari vengono colti di sorpresa da quella rapina che è il Covid, un male che porta via in tre giorni? È perché anche i parenti sono annichiliti, che dimenticano di partecipare il lutto? O non è forse per un’assurda oscura vergogna, un non voler parlare di quel morbo contagioso, nel timore di sentirsi guardare come infetti? Penso a come andava con la morte a Milano, e in tutta Italia, quando ero bambina. Il portone coperto da pesanti drappi di velluto nero e viola già diceva: la morte è passata di qui, e allora anche noi bambini rincasavamo zitti, senza strillare. Il defunto veniva portato via da casa, dov’era stato vegliato, e la bara sul carro s’avviava verso la chiesa. Ricordo cortei lunghissimi e il traffico che rispettosamente si fermava, muto. Non partiva solo, chi moriva, e ognuno andava a fare le condoglianze alla famiglia. La morte, per un giorno, prendeva dimora fra i vivi. Poi se ne andava, ma ciascuno l’aveva vista, e almeno un po’ aveva condiviso il lutto.
Ora, certo, in tempi di pandemia doverosamente si evitano affollamenti e contatti. Ma un funerale, ben distanziati, comporta davvero più rischi di un supermercato nell’ora di punta? E due righe almeno, su un foglio listato di nero? Giusto per dire: il signor B. se ne è andato. C’è qualcosa di nuovo, c’è uno strappo dall’Italia che conosciamo, nel partire senza una parola. Come se quel signore gentile non fosse mai vissuto qui.
Tra i padroni di cani alla solita aiuola qualcuno prima o poi noterà che manca non tanto il dottor B., quanto il suo cane nero. E il padrone? Alzeranno le spalle: «Mah, forse è andato a passare i mesi freddi in Liguria. Beato lui che può...». E al dottore che non torna, a primavera, non faranno più caso. O forse qualcuno sì. E questa, tenace, è la speranza.