giovedì 30 giugno 2016
COMMENTA E CONDIVIDI

Dimmi come giochi e ti dirò chi sei. Vale per gli individui, vale anche per le nazioni. Il calcio è il gioco per eccellenza, e sono le squadre nazionali a svelare l’indole del popolo. Così i brasiliani hanno il futebol bailado, un samba ubriacante e spesso troppo innamorato di se stesso; gli argentini sono grinta, talento e orgoglio; gli uruguaiani, minuscoli tra i due giganti, affinano l’arte della difesa arcigna e della puntura improvvisa a chi si illude di stritolarli agevolmente. Gli inglesi hanno l’impero nel sangue e la sindrome del fondatore: il calcio l’abbiamo inventato noi e dunque... dunque un bel niente. I francesi si specchiano nella bellezza altezzosa del calcio champagne. I tedeschi ti avvolgono e soffocano nella ricerca spasmodica del lebensraum, la sindrome da spazio vitale. 

E noi italiani? Nessun impulso espansionistico, nessuna sindrome da conquista e spirito nazionale poco o nulla, tranne quando ci aggrediscono. Allora l’antico cittadino del borgo lascia gli attrezzi e corre a difendere le mura, la famiglia, la bottega. Sui monti d’Albania e sulle pianure ucraine ci domandiamo che cosa ci stiamo a fare, come negli assalti infiniti sull’Isonzo. Ma in difesa strenua della terra, dal Grappa al Piave, diventiamo dei leoni. Le nazionali di Bearzot e Lippi erano (si sentivano) accerchiate, i ventidue individualisti di ventidue comuni rivali si sono stretti a coorte e hanno vinto. Ma la nazionale di Conte? Che Italia ci racconta? La sua è una Nazionale laboriosa e umile, senza talenti conclamati ma assai collaborativa. Sembra l’esatto contrario dell’Italia in cui abitiamo, ci arrabattiamo e ci arrabbiamo: cinica e furba, gradassa e opportunista, che si affida molto alla botta di fortuna e poco al lavoro, orgogliosa dei propri talenti che appena possono, però, abbandonano la trincea che poter sbocciare appieno altrove. La Nazionale di Conte racconta un Paese ideale sconsolatamente lontano dal Paese reale. 

E allora? Allora, la Nazionale appartiene non alla realtà ma al sogno, non a come siamo ma a come vorremmo essere. Di più: ci dice come potremmo e sapremmo diventare, se soltanto avessimo regole certe valide per tutti, se fossimo liberi dal dubbio che, mentre io mi sbatto correndo 13 chilometri, il furbo malandrino ne corre due, se io ti aiuto poi tu non aiuti me, e non c’è autorità alcuna capace di mettere in riga l’italiano minimo premiando l’italiano massimo. Vedere Conte urlare come un ossesso a bordo campo, lo ammettiamo, è un godimento unico. Noi possiamo essere così, accidenti. Perché non lo siamo?

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: