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C’è una realtà che emerge in tutta la sua evidenza in questo Sinodo sull’Amazzonia, è un messaggio che è tutto compreso in un verbo: riconoscere. Che cosa? Per primo questo: «Abbiamo fatto un passo, siamo qui. Un passo che non avevamo immaginato. Questa è la prima volta che non solo le popolazioni indigene, ma le donne delle popolazioni indigene hanno voce in un’aula come questa, qui in Vaticano. E siamo qui non per fare colore e dipingere nell’aria, siamo qui come donne, come figlie, madri, mogli con la nostra vita reale, vissuta ventiquattr’ore su ventiquattro nella nostra terra, non solo guardando ma agendo. Siamo qui con la dignità della nostra vita reale minacciata che portiamo nel nostro sangue e nel nostro cuore».
Anitalia Pijachi, di etnia okaina witoto, è una delle donne indigene dell’Amazzonia colombiana che hanno preso posto accanto a vescovi, religiosi e laici nell’assemblea e nei lavori di questo processo sinodale. Processo che per la prima volta vede la presenza di 35 donne tra le quali leader di popolazioni indigene, esperte, laiche e religiose. E Anitalia, come le altre, parla con la stessa parresia del coraggio, proprio di chi viene da quella vita reale difesa in un contesto dove questa è costantemente e oltremodo minacciata dalla violenza, dall’abuso, dallo sfruttamento, dalla schiavitù, dalla tratta. L’Amazzonia stessa del resto, che dà la vita al mondo, è oggi, fuor di metafora, una donna violata. Questo è «un passo che ci porta – afferma ancora la leader indigena – anche a fare un processo di riconciliazione dei popoli originali con la Chiesa, di riconciliazione con le nostre memorie storiche». «Si sta aprendo un cammino e l’aspetto positivo non riguarda solo le donne indigene che stanno partecipando al Sinodo – fa notare un’altra uditrice che viene da Manaus, Suor Roselei Bertoldo – il fatto da riconoscere è che la testimonianza delle donne ha marcato e segna quello che sta succedendo durante i lavori. Siamo davvero ascoltate ed è interessante vedere come proprio i maggiori problemi di distruzione della vita e dell’ambiente, siano portati al Sinodo attraverso le parole delle donne».
E l’esempio di un ascolto attento verso le testimonianze di queste donne lo ha dato il Papa stesso, come hanno osservato e riportato i partecipanti all’assemblea sinodale, facendo risvegliare a quella reciprocità maschile-femminile un’assemblea di vescovi che senza la loro presenza si sarebbe probabilmente interrogata con meno coraggio. Un esempio dimostrativo affinché questo atteggiamento possa crescere e maturare come tratto abituale nel seno della Chiesa. C’è quindi un al- tro aspetto che in questo processo sinodale si è fatto evidente: che c’è una Chiesa che non esisterebbe senza le donne. Che è fatta di quelle tante che in Amazzonia portano avanti con coraggio le cose di Dio e tengono in piedi la vita di tante comunità, di tanti villaggi lungo i fiumi come nelle città. Che cosa sarebbero queste comunità senza di loro? E non si tratta di 'supplenze', perché il futuro di una Chiesa che rimane e cresce passa per il cuore di queste donne. I vescovi e i sacerdoti di quella regione ne sono consapevoli e riconoscono il ruolo centrale che le donne oggi svolgono nella comunità, nella formazione, nella pastorale, nei movimenti sociali, nella missione della Chiesa Panamazzonica. Pertanto essi stessi propongono che l’inclusione delle donne sia più garantita per una vera conversione pastorale. Come rilevato dagli stessi vescovi intervenuti nei briefing quotidiani presso la Sala stampa vaticana.
Tutti noi abbiamo bisogno di cambiare la nostra mentalità per far sì che la partecipazione della donna sia sul piano di uguaglianza », ha specificato, ad esempio, il vescovo Ricardo Ernesto Centellas Guzman, presidente della conferenza episcopale della Bolivia: «La presenza della donna nella Chiesa è una maggioranza, ma la sua partecipazione nell’organizzazione a livello decisionale è molto scarsa, quasi invisibile, e quindi se non cambiamo le nostre strutture e il nostro modo di organizzarci la situazione non cambierà. Bisogna iniziare dalle cose più piccole: non c’è bisogno che la Santa Sede ci dia indicazioni al riguardo, è a livello di parrocchie che dobbiamo coinvolgere sempre più le donne nei processi decisionali». Il vescovo boliviano ha fatto l’esempio della sua diocesi, dove, ha detto, «ho una vicaria pastorale e il modo in cui chiama a percorrere il cammino pastorale è diverso rispetto al modo in cui potrebbe farlo un uomo: non cerca di imporsi, convoca le persone per ricevere suggerimenti e questo permette alla comunità di essere soggetto sinodale e decisionale. Il modo di percepire la vita, di affrontare i problemi, di far sì che la Chiesa possa camminare in comunità è un approccio completamente diverso».
L’autorità di governo nella Chiesa è principalmente maschile, ma l’azione pastorale della Chiesa è marcatamente femminile, ha detto ancora il vescovo: «Tutta la sensibilità nei confronti dei drammi umani, tutta la partecipazione della Chiesa deriva dall’intuito femminile più che dall’autorità di governo». Si tratta quindi di riconoscere che la questione non è superficialmente di pari opportunità perché non nasce dalla rivendicazione di spazi ma da una ricchezza da recuperare, quella di una Chiesa- comunità che investe la natura gerarchica e comunionale della Chiesa. Che quello dell’Ordine, riservato agli uomini, non è il solo sacramento a garantire un’assistenza dello Spirito santo in fase di ascolto, di confronto e di decisioni. Che è piuttosto il Battesimo a compaginare un Corpo con diverse membra, la cui possibilità di movimento sorge solo dalla loro cooperazione e dalla reciprocità come questo Sinodo speciale sta mostrando.
«Il contributo profetico delle donne – come scrive il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi, in un testo di prossima pubblicazione per la Pontificia università delle scienze dell’educazione Auxililum – non può fare a meno di cercare di inserirsi nelle strutture ed istanze che decidono oggi della sorte delle persone e del futuro della Chiesa, ma non con l’intenzionalità di prendere il potere secondo una logica mondana, ma con l’intenzione di promuovere un modo femminile, uno sguardo diverso sui valori, sui rapporti umani, sulle priorità che dovrebbero guidare l’impegno e la missione sinodale della Chiesa nel mondo attuale». Del resto è quanto auspica l’esortazione Evangelii gaudium sulla missione, dove è ancora il verbo 'riconoscere' a indicare la prospettiva di un coinvolgimento delle donne nella sinodalità: «La Chiesa riconosce l’indispensabile apporto della donna nella società, con una sensibilità, un’intuizione e certe capacità peculiari che sono solitamente più proprie delle donne che degli uomini... per tale motivo si deve garantire la presenza delle donne nell’ambito lavorativo e nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti, nelle strutture sociali quanto nella Chiesa». E l’Esortazione non manca poi di ricordare anche che il sacerdozio ministeriale è uno dei mezzi che Gesù utilizza al servizio del suo popolo, ma che «la grande dignità viene dal Battesimo, che è accessibile a tutti». Pertanto «la configurazione del sacerdote con Cristo Capo – vale a dire, come fonte principale della grazia – non implica un’esaltazione che lo collochi in cima a tutto il resto. Perché «nella Chiesa le funzioni non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri. Di fatto, una donna, Maria, è più importante dei vescovi». Solo per questo riconoscimento può passare una Chiesa dal volto amazzonico. E questo sinodo con le sue 35 madri sinodali mostra come può camminare una Chiesa che vuole conformarsi al Vangelo.