venerdì 2 maggio 2014
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Ci sono ferite che, se non curate tempestivamente, possono infettare il corpo e l’anima. E il vergognoso applauso tributato durante il congresso del sindacato Sap ai quattro poliziotti condannati dalla Cassazione a 3 anni e 6 mesi di reclusione per aver causato la morte di Federico Aldrovandi, è uno sfregio sul volto di un’istituzione, la Polizia di Stato, alla quale da quasi 162 anni l’Italia affida la tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico. Quella sguaiata «standing ovation» ha riaperto una vicenda fra le più brutte della storia recente della Polizia, chiusa con le condanne sancite dalla Cassazione nel 2012 per «eccesso colposo» in omicidio colposo. Sintesi penalistica che non rende bene quanto accadde: la notte del 25 settembre 2005 a Ferrara, ha scritto la Suprema Corte, quei poliziotti «sferrarono numerosi colpi contro Aldrovandi, non curanti delle sue invocazioni di aiuto» e la «serie di colpi proseguì anche quando il ragazzo era stato fisicamente sopraffatto» e reso «inoffensivo». Il personale del 118 trovò il diciottenne «riverso a terra, con le mani ammanettate dietro la schiena», constatandone il decesso per «arresto cardio–respiratorio e trauma cranico–facciale». Ancora oggi, toglie il fiato guardare le foto del corpo martirizzato del povero Federico, sul quale i medici riscontrarono 54 lesioni ed ecchimosi. Bisogna essere davvero moralmente crudeli, a nove anni di distanza, per infliggere altro dolore a una famiglia e a una madre, Patrizia Moretti, già oltraggiate in passato dalla manifestazione di aderenti a un altro sindacato, il Coisp, anche loro solidali coi condannati. Non solo: bisogna essere totalmente dimentichi della propria missione istituzionale, quella di proteggere e difendere i cittadini, per sfigurare così l’immagine della Polizia, che ha impiegato molto tempo a guarire dai postumi della «macelleria messicana» della scuola Diaz, ai tempi del G8 genovese del 2001.Nella costernazione generale, tuttavia, c’è un segnale che fa ben sperare. Ci sono stati anni in cui vicende analoghe suppuravano come un bubbone nel gran corpo del Viminale. Stavolta, invece, la reazione degli anticorpi dell’organismo ferito è stata immediata (proprio come 15 giorni fa, nell’episodio dell’agente “calpestatore”, subito fermamente stigmatizzato dal capo della Polizia). Non ci riferiamo solo alle parole e ai gesti del premier Renzi, del ministro dell’Interno Alfano, del prefetto Pansa, ma al vibrante sdegno espresso da altre sigle sindacali di Ps e dalla cosiddetta “base”, la stragrande maggioranza dei 95mila poliziotti italiani che in queste ore, da Milano a Palermo, condanna il gesto e manifesta solidarietà alla signora Moretti. Valgano, per tutte, le proteste di molti iscritti allo stesso Sap, che minacciano di strappare la tessera, indignati per un applauso a persone che hanno «macchiato di sangue anche la divisa di chi fa il proprio dovere con dignità». Parole che ripudiano la becera retorica (lucrosa in tempi di tesseramento) in favore di “colleghi che sbagliano”: non si tratta di commilitoni, gridano migliaia di poliziotti, ma di mele guaste che possono avvelenare il cesto.E per ripulire a fondo la ferita, prima di suturarla, alla presenza degli anticorpi forse sarebbe opportuno aggiungere un medicinale: alla richiesta della madre di Federico di destituire gli agenti condannati (tre sono ora destinati a servizi amministrativi), il capo della Polizia ha risposto di avere le mani legate, per via delle norme vigenti. Ecco, nella stagione del “cambia verso” renziano, forse il governo e il Parlamento potrebbero ragionare su come modificare concretamente quelle disposizioni, per evitare che, in casi così gravi, situazioni simili si ripetano.
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