Nel momento esatto in cui lasciò questa terra teneva stretta tra le mani una virtù, la prima delle virtù cardinali: quella della prudenza, la virtù necessaria a chi governa. I fogli rinvenuti tra le sue mani dopo la morte di Giovanni Paolo I riguardavano proprio un suo scritto del 1964 su quella che la sapienza classica considera l’auriga, la condottiera di tutte le virtù. L’aveva messa all’ordine del giorno per l’udienza generale del mercoledì successivo, come confermano gli appunti autografi del suo personale block notes, per dare seguito al suo programma di pontificato. Perché Giovanni Paolo I voleva tracciare la strada con le "Sette lampade" della vita cristiana: le virtù teologali della fede, della speranza e della carità e le quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Quelle che con il Giornale dell’anima di Giovanni XXIII chiamava: «Le Sette lampade di santificazione».
E nei trentaquattro giorni di pontificato aveva così messo le fondamenta del suo magistero, cominciando dalle prime tre. Per «Farle risplendere», «Iª = la fede» e lo fa con i versi dialettali di Trilussa, come li appunta nella sua agenda personale usata nel pontificato, dove si prende atto in modo diretto della genesi di tutti i suoi interventi che sembravano a braccio, di tutti i suoi discorsi e delle sue udienze e che oggi, per la prima volta, proprio alla luce delle carte, sono stati restituiti alla loro integrità e profondità e dati recentemente alle stampe a cura della Fondazione Vaticana Giovanni Paolo I. Alla fede segue la speranza nell’udienza del 20 settembre «virtù obbligatoria per i cristiani», «conseguenza – afferma citando il Concilio – che non solo non esime i cristiani dall’edificazione di un mondo migliore ma li obbliga con impegno ancora più stringente». Infine, la carità che è tutto, che è la Cathedra della fides romana. E chiamando in causa Dante ci porta al cuore del magistero, facendolo precedere da un’altra virtù: quella umiltà, che rappresenta l’essenza del cristianesimo, la virtù portata nel mondo da Cristo e l’unica che a lui porta e l’unica da cui può prendere principio ogni cammino nella Chiesa.
Non sale agli altari perché Pontefice, ma per il suo rapporto con Dio, che ne fa un esempio per tutti. Nel suo magistero anche un nuovo stile
di governo segnato dalla semplicità evangelica
Udienze che si mostrano perciò punta di un iceberg di riprese e affinamenti continui nel tempo, nella cornice di una solida formazione teologica e di una geniale sintesi di sacro e profano, nova et vetera, erudizione e semplicità in uno stile colloquiale che è comprensivo del mondo e degli uomini ed è con essi dialogante e comprensibile, affinché il messaggio della salvezza possa giungere a tutti. Uno stile che nulla lascia all’improvvisazione e ha un segreto: il sermo humilis, la scelta teologica canonizzata da sant’Agostino nel De predestinatione sanctorum, nel quale il padre della Chiesa afferma che la verità deve essere posta con delicatezza, perché si deve adeguare sia alla natura stessa della verità, sia tanto più alle possibilità di ricezione dell’uditore perché questi la possa ricevere. E per papa Luciani perciò anche la scelta dello stile colloquiale non è che un atto d’amore verso Dio e verso gli uomini e pertanto attiene anch’esso alle virtù teologali. Virtù che sono non solo predicate ma soprattutto praticate, vissute, e in un modo non comune. Sono queste le ragioni per le quali oggi viene beatificato.
Non si beatifica un papa perché è papa, non si beatifica un pontificato. La Chiesa da sempre ha un unico criterio che riconosce per proclamare beati o santi: e cioè che la santità consiste essenzialmente nell’unione con Dio realizzata dalla grazia. Tutta la plurisecolare e complessa procedura che li porta agli onori degli altari serve solo per accertare se questo c’è ed è autenticamente vissuto. E a questo livello, che i candidati suggeriti dal sensus fidelium, indicati dal popolo di Dio, siano netturbini, operai, scaricatori di porto o papi, nulla cambia. Gli elementi per Giovanni Paolo I sono quindi quelli sempre validi per tutti coloro che vengono proclamati beati dalla Chiesa come confessori della fede: aver sempre cercato l’unione con Dio e aver vissuto, nella ferialità, tutte le virtù cristiane in modo non comune.
Appena consacrato vescovo di Vittorio Veneto, nel 1959, pronunciò queste parole che restano filo conduttore di tutto il suo ministero fino alla Cattedra di Pietro: «Io cercherò di aver sempre davanti al mio episcopato questo motto: fede, speranza, carità. Se mettiamo in pratica queste tre cose, siamo a posto: se abbiamo la fede, se abbiamo la speranza, se abbiamo la carità. Cercate anche voi di fare altrettanto. Siamo tutti poveri peccatori». Questi i tratti salienti della sua spiritualità e della sua santità. «Tutta la vita di Albino Luciani fu impegnata a ricercare la sostanza del Vangelo, come unica ed eterna verità, al di là di ogni contingenza storica o di moda», osservò il noto filologo Vittore Branca, che era stato vicino a Luciani negli anni del patriarcato a Venezia. Luciani era così rimasto fedele alla dottrina di san Francesco di Sales, santo che gli fu caro fin dall’adolescenza, quando lesse la Filotea. Introduction à la vie devote e il Traicté de l’amour de Dieu e come lui ha «reso facile a tutti la via verso Cristo», come è scritto nel breve pontificio che lo riconosce Dottore della Chiesa.
Da qui il pastore nutrito di umana e serena saggezza e di forti virtù evangeliche, che precede e vive nel gregge con l’esempio, senza alcuna separazione tra la vita personale e la vita pastorale, tra la vita spirituale e l’esercizio di governo, nell’assoluta coincidenza tra quanto insegnava e quanto viveva. A partire da quelle che ha Luciani predicato e prima ancora vissuto anche nelle quattro udienze del suo magistero da Papa: fede, speranza e carità, precedute dall’umiltà. Una testimonianza autentica di cristianesimo, nella quale lo stesso popolo di Dio si identifica e si edifica. E per questi motivi, papa Luciani, anche se Papa, è modello non solo per i preti, i religiosi ma per tutti e imitabile da tutti.
A queste ragioni che ne sono fondamento scaturisce e si coniuga il messaggio attuale di questa beatificazione, quella che nei termini della procedura canonica viene definita opportunitate canonizationis per la Chiesa. Qual è la sua attualità? In calce, nella sua agenda personale del pontificato, citando il santo vescovo del IV Avito di Vienne siglava così l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità». Giovanni Paolo I aveva infatti assimilato già nella sua formazione sacerdotale quella visione, cara ai Padri del primo millennio, della Chiesa come mysterium lunae: una Chiesa cioè che non brilla di luce propria, ma di luce riflessa; una Chiesa che non è proprietà degli uomini di Chiesa, ma Christi lumini. Immagine della natura ecclesiale e dell’agire che le conviene che aveva irrigato diffusamente i documenti del Concilio e che divenne decisiva e feconda nell’iter pastorale di Luciani.
Egli ha vissuto l’esperienza del concilio Ecumenico Vaticano II, come risalita alle sorgenti del Vangelo e l’ha applicato facendo progredire la Chiesa lungo le strade maestre da esso indicate. Prossimità e disponibilità fraterna al dialogo con la contemporaneità e al dialogo internazionale condotto con perseveranza in favore della giustizia e della pace, semplicità evangelica, insistenza sulla opere di misericordia e sulla tenerezza di Dio, ricerca della collegialità e dell’unità dei cristiani, il servizio nella povertà ecclesiale, sono i tratti salienti di un magistero vissuto che quarant’anni fa suscitarono una vasta risonanza e grande affetto nel popolo di Dio. Sono gli stessi tratti che lo rendono attuale anche per la Chiesa del XXI secolo. Giovanni Paolo I è stato e rimane un riferimento inalienabile nella storia della Chiesa, testimone oggi di una Chiesa che con il Concilio è risalita alle sorgenti per essere fedele alla natura della sua missione nel mondo e testimone oggi di ciò che il fondamento autentico del vivere nella Chiesa e per la Chiesa.