Caro direttore,
mi faccia capire: una persona abile al lavoro ha diritto al Reddito di cittadinanza, l’altra, disabile, non ne ha diritto perché percepisce la pensione (295 euro!) con la quale deve campare. Nostra figlia autistica non è in grado di lavorare e noi genitori con due pensioni da impiegato e casa di proprietà siamo “ricchi” per lo Stato e possiamo mantenerla. Finché siamo in vita...
Ferruccio Puglisi Novellara (Re)
Le contraddizioni in materia di welfare in Italia sono tante, gentile signor Puglisi, ma ciò che va evitata è una guerra tra poveri. Sollecitato dal direttore, provo dunque a risponderle. Un cittadino abile al lavoro ha diritto al Reddito di cittadinanza se le sue entrate sono inferiori a 6.000 euro l’anno (oltre ad altri requisiti patrimoniali) fino ad arrivare a quella stessa cifra. Per intenderci: se, con lavoretti saltuari, questa persona riesce a guadagnare 3.500 euro l’anno, il suo assegno Rdc sarà di 2.500 annui. La cifra di 6mila euro – sia come soglia d’accesso sia come importo del sussidio – è aumentata in base ai componenti del suo nucleo familiare, secondo una scala di equivalenza e a questa si aggiunge poi un contributo per l’affitto dell’abitazione con 280 euro di quota base. Anche una persona disabile ha diritto al Reddito di cittadinanza.
Se vive da sola può fare domanda e otterrà lo stesso trattamento di un “abile” con un sussidio che colmerà la differenza tra il trattamento assistenziale di cui già gode e i 6mila euro annui del Rdc. Diversa è la situazione per le persone con disabilità che vivono in famiglia. In questo caso, all’assegno d’invalidità si sommano i redditi dei familiari e spesso anche entrate modeste dei genitori determinano il superamento della soglia considerata di povertà per il Rdc e determinano l’esclusione dal sussidio. Anche per questo sono state chieste, da parte di molte associazioni e del Comitato scientifico sul Rdc, modifiche alle scale di equivalenza. Indicazioni che il governo ha finora ignorato.
Il vero nodo, però, signor Puglisi, non è quello di un presunto privilegio dei percettori del Reddito di cittadinanza, quanto il trattamento previdenziale delle disabilità, scandalosamente insufficiente. Semplificando la giungla di regole e trattamenti diversi, si può distinguere tra persone con invalidità parziale e totale. A questi ultimi, che ovviamente non possono lavorare, solo grazie a una sentenza della Corte costituzionale la pensione d’invalidità è stata aumentata a un livello di decente sopravvivenza, da 285 a 651 euro al mese (superiore quindi alla quota di Rdc del singolo, affitto a parte). Mentre più penalizzate risultano oggi le persone con disabilità parziale, tra il 75 e il 99% di invalidità, alle quali ancora viene riservato un assegno mensile di soli 287,09 euro con limite di reddito personale di 4.931 euro annui.
Per colmo di paradosso, la Corte di Cassazione ha interpretato in maniera letterale la norma in materia, inducendo il mese scorso l’Inps ad annunciare la sospensione dei trattamenti a chi svolga una qualsiasi attività lavorativa. Così negando alle persone con disabilità il diritto al lavoro e all’inclusione con il ricatto della perdita dell’assegno di invalidità. Sollecitati dalle associazioni dei disabili (e da noi di “Avvenire”), il ministro del Lavoro Andrea Orlando e alcuni esponenti politici hanno promesso di correggere la norma con un emendamento al Decreto fiscale, in questi giorni all’esame della Commissione Finanze del Senato. Bene, aspettiamo che queste correzioni siano approvate.
Ma così si sarà solo sanata l’ultima ferita inferta. Per rendere davvero equo il trattamento previdenziale delle persone con disabilità, invece, serve agire in tre direzioni. La prima, aumentare agevolazioni e benefici per le famiglie con figli con disabilità, come si sta facendo con l’assegno unico. La seconda, far funzionare effettivamente il collocamento mirato per l’inclusione al lavoro degli invalidi parziali e così migliorarne l’autonomia economica e sociale. Infine, per chi non riesce ad essere inserito al lavoro, portare direttamente l’assegno di invalidità almeno a livello di quello base del Rdc. Se quella è la soglia di sopravvivenza individuata dallo Stato, allora che sia uguale per tutte le persone in difficoltà.