Un anno di guerra ha riportato l’Etiopia indietro di 35 anni, ai tempi della carestia che mobilitò il mondo del rock con il 'Live Aid'. Come nell’85 il secondo Paese africano, oggi indebolito dalla pandemia e dai mutamenti climatici, è sull’orlo del baratro per una guerra civile, stavolta tra Governo centrale, Tigrini e Oromo, e per una carestia provocata da mano umana per vincere con la fame quella resistenza che le armi non hanno piegato. Si ritrova così sul ciglio della dissoluzione, con il rischio di trascinare l’intero Corno d’Africa. E, comunque vada a finire il conflitto scoppiato nel Tigrai il 4 novembre 2020, e subito oscurato da un black-out comunicativo, il disastro di Abiy e dell’Etiopia è evidente.
Scegliendo di proseguire con la guerra civile la lotta politica agli arcinemici del Tplf, partito guida del Tigrai e suoi predecessori alla guida dell’Etiopia per 27 anni, Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019, ha affossato in 12 mesi i successi economici segnalati da una crescita decennale del Pil a due cifre e la propria immagine internazionale di leader nuovo del continente africano, ambientalista e paladino della libertà di espressione e dei diritti umani. Oggi il Paese è flagellato dall’inflazione, butta soldi in armamenti e li sciupa in investimenti esteri sbagliati.
Politicamente, si aprono scenari inquietanti – impensabili un anno fa – per la pericolosa vicinanza degli shabaab somali e per l’interesse neo-ottomano dei turchi per la regione. Se l’Etiopia federale dovesse collassare, si rischierebbe l’estensione in tutta la fascia subsahariana delle instabilità tipiche del Sahel alimentate da miseria irrimediabile e jihadismo. Nel Corno d’Africa si gioca, per di più, l’ennesima partita tra Cina e Usa. I cinesi, già alleati del Tplf per affinità ideologiche e interessi economici, da un anno – per tutelare i propri investimenti nell’area – sono passati al fianco del premier di Addis Abeba ponendo il veto al Palazzo di Vetro a ogni discussione sul conflitto.
L’amministrazione Biden, invece, di fatto non crede più in Abiy, liberale e liberista, ma che un anno fa prometteva di risolvere la questione militare con i tigrini in un mese e ora rischia la sconfitta per averne sottovalutato la capacità di resistere, riorganizzarsi e contrattaccare.
Eppure non era un mistero che in Tigrai si trovasse gran parte dell’arsenale etiopico e che fossero di origine tigrina molti comandanti dell’esercito federale (che, infatti, hanno disertato). Gli Usa, la Ue, l’intera comunità internazionale temono in Etiopia un bis dell’Afghanistan tre mesi dopo, con un esercito nazionale sconfitto sul campo da 'milizie 'regionali e stanno perciò evacuando il personale delle ambasciate.
Washington intenderebbe fermare a ogni costo lo scontro in nome del dogma strategico dell’indissolubilità della nazione, baluardo della cristianità in Africa e scudo contro il jihadismo, e per questo sta trattando con tutte le parti. La mossa di Pechino, invece, si fa attendere. Intanto, nel disastro provocato da Abiy giganteggiano ignobili crimini di guerra. Ne ha commessi – come denunciava pochi giorni fa l’Onu – anche il Tplf, ma le stragi perpetrate in Tigrai, territorio etiope, da soldataglie eritree come quella degli 800 civili ad Axum, città santa cristiano-copta, e gli stupri di massa di cui sono stati accusati sempre gli eritrei hanno indignato l’opinione pubblica internazionale. Anche perché sono stati confermati da organizzazioni come Amnesty International e Human Rights Watch e documentati su queste pagine e su quelle di diversi altri media internazionali.
Bruciano doppiamente perché sono stati ordinati o tollerati da un Nobel per la pace. In definitiva l’errore fatale di Abiy è stata l’alleanza sponsorizzata da emiratini e sauditi, molto influenti anche nel Corno, con il despota eritreo Isayas Afewerki, con il quale – dopo aver chiuso 20 anni di conflitto – ha subito iniziato a progettare la guerra contro gli arcinemici comuni del Tplf. Afewerki non ha prospettive a lungo termine, è un guerrafondaio perché i conflitti gli allungano la vita e ha sempre avuto mire espansionistiche sul Tigrai (contraccambiate dai 'cugini' tigrini).
Oggi ha sacrificato l’ennesima generazione eritrea sul campo di battaglia e si prepara a difendersi dalla probabile vendetta del Tplf, mentre l’alleato etiope arruola i riservisti per difendere la capitale, dichiara lo stato di emergenza e lancia appelli su Facebook alla popolazione per 'sotterrare i nemici' facendosi persino cacciare dalla piattaforma social per il linguaggio violento usato. Senza l’intervento dell’Onu e della comunità internazionale la guerra civile etiope non si fermerà ed è questo il vero disastro per l’Africa, per il suo ultimo Nobel per la pace e per chi due anni fa glielo ha assegnato.