Dopo la limitazione dei consumi, recupero e riciclo sono i comportamenti chiave per ridurre la nostra impronta sull’ambiente, sotto il profilo sia delle risorse sia dei rifiuti. Ma nel caso degli indumenti usati il recupero è anche un importante canale di solidarietà, perché in molti casi le aziende addette alla gestione dei cassonetti sono cooperative sociali costituite per dare lavoro a persone svantaggiate. Spesso sono anche espressione di realtà caritative che utilizzano i proventi ottenuti dal riutilizzo per finanziare progetti di solidarietà in Italia come nel Sud del mondo. Alcune vicende giudiziarie, però, hanno messo in evidenza che la filiera degli indumenti usati è anche affollata da mafiosi e camorristi che utilizzano la facile manovrabilità dei dati per arricchirsi illegalmente tramite la falsificazione dei volumi trattati, l’emissione di fatture contraffatte, la mancata selezione e lo smaltimento clandestino delle frazioni di vestiario non recuperabile. In effetti già nel 2014 la Direzione nazionale antimafia certificava che «buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti». I primi ad essere danneggiati da questa situazione di illegalità sono proprio i soggetti solidali che, vedendo il loro nome associato a quello dei malavitosi, rischiano di subire un enorme danno di reputazione e persino una rottura nel rapporto di fiducia con l’opinione pubblica. Sentendo addosso la responsabilità di queste terribili conseguenze, da vari anni alcuni soggetti dediti alla raccolta di indumenti usati si sono fatti promotori presso gli altri attori sani della filiera di un’iniziativa per difendersi dall’illegalità, mentre ai Comuni, o a chiunque sia demandato a gestire i rifiuti a livello territoriale, è stato chiesto di adottare regole più stringenti per la scelta dei soggetti a cui assegnare il servizio di raccolta. È iniziato così un confronto, durato un paio di anni, che alla fine ha consentito a Utilitalia, l’associazione di categoria che rappresenta le imprese fornitrici di servizi essenziali, di elaborare delle linee guida per la selezione dei candidati che chiedono di svolgere il servizio di raccolta degli indumenti.
Fra i criteri è stato inserito anche l’obbligo di trasparenza: «La stazione appaltante (Comune o chi per lui) deve poter acquisire le necessarie garanzie che i flussi di rifiuti (abiti usati) raccolti nel proprio territorio siano trattati in impianti idonei dal punto di vista tecnologico e autorizzativo, e completamente tracciati lungo le varie fasi della filiera. Da tale tracciabilità deve poter emergere con assoluta certezza che detti flussi abbiano trovato adeguata destinazione e valorizzazione nel rispetto dei princìpi della gerarchia europea». E continua: «A tal fine è importante prevedere nel contratto l’impegno dell’appaltatore a predisporre con cadenza almeno annuale un report che, sulla base dei rifiuti raccolti, informi sulle percentuali delle diverse destinazioni: 1) preparazione per il riutilizzo e cessione (distinti in 'solidale' o 'profit'); 2) riciclo; 3) recupero di altro tipo; 4) smaltimento». Specificando sempre quanto avvenuto in Italia e quanto all’estero. Sembra perfino banale dirlo, ma la segretezza è il terreno fertile della criminalità. Quando i fatti avvengono nelle tenebre, senza obbligo di rendicontazione, al riparo di qualsiasi verifica, è allora che possono formarsi atteggiamenti deviati: truffe, abusi, prepotenze, corruzione, violazioni. Quando, al contrario, si è tenuti a dimostrare, documenti alla mano, come ci si comporta, con chi si hanno rapporti, la provenienza dei soldi, il loro utilizzo, le probabilità di violazione della legge si fanno più scarse. Si può dire che il sotterfugio è inversamente proporzionale al grado di trasparenza. Paradossalmente se ogni capo di vestiario buttato in un cassonetto potesse essere tracciato, potremmo sapere come è stato smaltito e se ha seguito l’iter igienico previsto dalla legge o se è stato messo in vendita senza alcun trattamento. Se è stato sottoposto a cernita in uno stabilimento legale o clandestino, sia esso italiano o straniero, che rispetta i diritti dei lavoratori o li viola, che paga le tasse o le evade. Potremmo sapere se è stato messo in vendita in modo legale oppure è finito nei circuiti capestro d’Africa, Asia o dell’Italia stessa. Ovviamente la tracciabilità di ogni singolo capo è impossibile, ma l’obbligo, per chi raccoglie, di rendicontare le tappe principali seguite dal materiale che ha raccolto, sarà un contributo importante contro la criminalità a difesa della legalità, dei diritti e dell’ambiente.