domenica 14 dicembre 2014
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Giorno dopo giorno, si sviluppa nell’area occidentale una strategia contraria ad alcuni diritti umani che, codificati nel Novecento, costituiscono un prezioso patrimonio contro ogni forma di totalitarismo, a favore della dignità della persona. L’affermazione non è un azzardo, è stata confermata nei giorni scorsi dall’approvazione del Parlamento francese di una risoluzione che eleva l’aborto a diritto fondamentale. Siamo di fronte a qualcosa che contrasta in modo drammatico con le Carte internazionali dei diritti umani, che pongono la tutela della vita a base e fondamento di una società solidale; configge persino con le legislazioni che consentono l’interruzione della gravidanza, ma la indicano come eccezione rispetto alla regola, un "male" giudicato minore, che non può mai superare certi confini di tempo e di motivazione.Considerare l’aborto come "diritto" apre un baratro di cui non si scorge il fondo: si praticherà quando e come si vuole, senza limiti, nei suoi confronti non varrà l’obiezione di coscienza, che pure è caposaldo delle libertà personali. Nell’ottica del documento francese, chi obietterà s’opporrà all’esercizio di un diritto, entrerà in uno spazio giuridico negativo, fino a poter subire sanzioni. All’indomani della celebrazione della Giornata dei diritti umani, è decisamente utile tornare a segnalare e a riflettere su uno "strappo" che sembra rompere una diga, e s’ispira a una ideologia che si propone di erodere, poco per volta, le difese che il diritto delle genti ha predisposto contro le violenze sui deboli. I diritti della persona sono momenti alti del diritto, strumenti di uomini e donne per realizzarsi in ambito religioso, politico, scientifico, matrimoniale e familiare, sono diretti a tutelare chi non ha voce per esprimersi: perciò lo Stato e la società si impegnano nel garantire l’esercizio dei diritti umani, diffonderne la conoscenza, favorirne l’attuazione. È questo il substrato della Dichiarazione Universale del 1948, e delle Convenzioni successive, questo è il pensiero di chi ha chiesto e voluto la svolta dei diritti umani: da Eleanor Roosevelt a René Dassin, a Robert Schuman e Alcide Gasperi, fino a Hannah Arendt che ha invocato il nuovo decalogo dei diritti come scudo contro ogni totalitarismo. Ma nell’aborto non c’è nulla di tutto ciò, c’è la sconfitta della persona, della società, che rigettano una nuova vita, rifiutano di accoglierla e sostenerla nel ciclo dell’esistenza. Con il suo carico di sofferenze e negatività, l’aborto è esattamente l’opposto di un diritto della persona. E chi propone questo traguardo non ha più timore di negare l’obiezione di coscienza. Pensiamo a quanto questa abbia animato il secondo Novecento, in ambito militare (obiezione e fine della leva), sanitario, scolastico, e avvertiamo che stiamo percorrendo all’indietro il cammino fatto, colpiamo i diritti personali, ne impediamo l’esercizio, senza che la comunità internazionale si sia mai pronunciata. Lo strappo francese si colloca all’interno di un processo involutivo che si diffonde in Europa. In Spagna si nega l’esenzione dall’insegnamento di Educazione alla cittadinanza, introdotto con la Ley Orgánica de Educación del 2006, che propone le recenti riforme sulla sessualità come valori da diffondere, anche se le famiglie sono contrarie. Spagna e Francia rigettano l’obiezione di giudici, e sindaci (che si astengono dal celebrare o registrare matrimoni gay), sostenendo che non si impongono atti religiosi, ma solo di carattere tecnico. Stretta in una filiera di divieti e obblighi che cresce continuamente, la libertà religiosa e l’obiezione di coscienza sono compresse in Danimarca, con una legge che obbliga i pastori evangelici a celebrare matrimoni omosex; in Scozia dove due ostetriche sono state obbligate a partecipare alla procedura d’aborto, mentre in Gran Bretagna s’è imposto a istituti religiosi di affidare i minori a coppie omosex. Dimenticando, oltre la libertà religiosa, che per la Convenzione contro le discriminazioni della donna del 1979, «la maternità è una funzione sociale, uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli»; e per la Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959, «salvo circostanze eccezionali, il bambino in tenera età non deve essere separato dalla madre». Tutto ciò può svanire d’un tratto, può imporsi il contrario anche a strutture religiose per decisione arbitraria dello Stato.  Di soglia in soglia, si erigono muri invalicabili, si prospettano scenari nei quali persona e famiglia finiscono imprigionati. Lo scenario ultimo prevede l’educazione sessuale obbligatoria nelle elementari, per la diffusioni delle ideologie di 'gender', ignorando il principio della Convenzione Europea del 1950: «lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento deve rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche». Così, in Germania le madri che hanno rifiutato l’educazione sessuale per le proprie figlie piccole sono state fermate e denunciate: dobbiamo aspettarci nel futuro che la scuola insegni che l’aborto è un diritto della persona e chi vi si oppone va punito? Sono domande nuove e dolorose, alle quale dovremo dare risposte coerenti con i principi umanistici cui si ispira la nostra società.
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