Una famiglia in un ambulatorio medico (Ansa)
Una vera rivoluzione sanitaria, un cambiamento epocale. È quello che ha rappresentato nel nostro Paese l’istituzione quarant’anni fa, con l’approvazione il 23 dicembre 1978 della Legge 833, del Servizio Sanitario Nazionale. Dalla confusione all’ordine, dalla frammentazione all’uniformità. Non più una miriade di enti mutualistici diversi, ciascuno con le sue prerogative per categorie di lavoratori e per specifiche patologie, le cui prestazioni dipendevano dai contributi versati, ma un unico 'sistema' rivolto a tutti gli italiani in relazione ai loro bisogni sanitari.
Sull’esempio di quello britannico, al quale s’ispirava, il Servizio Sanitario Nazionale nasceva con lo scopo di assicurare un’assistenza sanitaria adeguata a tutti i cittadini rifacendosi a tre principi fondamentali: l’universalità, perché la salute veniva intesa non solo come bene individuale, ma come risorsa dell’intera comunità; l’uguaglianza, perché le prestazioni dovevano essere fornite a ciascuno senza distinzione di condizioni sociali ed economiche; l’equità, perché a tutti, in relazione a uguali bisogni di salute, doveva essere garantita parità di accesso ai percorsi diagnostici e terapeutici. Una sanità generalizzata, gestita in maniera uniforme, coerente ed efficiente, in grado di dare attuazione concreta (a trent’anni dalla sua entrata in vigore, avvenuta il 1 gennaio 1948) al principio enunciato dall’articolo 32 della Costituzione Italiana: 'La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività'. La legge fu varata durante il IV governo Andreotti, detto di solidarietà nazionale, ministro della Sanità Tina Anselmi, esponente della sinistra dc. Se la spinta iniziale alla riforma venne dalla crisi finanziaria delle casse mutue, lo spirito universalistico della legge, di cui all’inizio non si colse pienamente la portata storica (pochi mesi prima venne rapito e poi ucciso Aldo Moro), era frutto della cultura popolaristica espressa dalla Democrazia cristiana nell’incontro con la cultura riformista di sinistra, spinta anche dai movimenti forti in quegli anni, da quello studentesco a quello operaio.
Dal punto di vista organizzativo la legge prevedeva l’istituzione di entità territoriali, le Usl (Unità Sanitarie Locali), alle quali erano demandate tutte le competenze, dalla prevenzione alla cura, dall’assistenza ambulatoriale a quella ospedaliera, secondo una concezione di salute che faceva riferimento alla dichiarazione che l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva messo alla base della sua funzione politica in ambito sanitario quando, nel 1948, aveva iniziato a essere operativa a seguito del mandato ricevuto due anni prima dall’Onu. Una definizione non più negativa, cioè la salute concepita come assenza di malattia o di infermità, com’era stata sino ad allora, ma positiva, la salute intesa come 'uno stato di benessere fisico, psichico e sociale completo'.
Una visione ideale, ma anche troppo utopistica, come avrebbe constatato trent’anni più tardi, nel settembre 1978, la conferenza di Alma Ata, che nella dichiarazione finale ridefiniva la salute in termini più realistici come equilibrio tra assenza di condizioni patologiche e/o infermità e presenza di situazioni in grado di rendere possibile una soddisfacente vita individuale, sociale e lavorativa.
Negli anni la riforma istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale ha subito cambiamenti anche notevoli: più di una 'riforma della riforma'. Nel 1992 la Legge De Lorenzo n. 502 - integrata poi l’anno successivo dal Decreto Garavaglia n. 517 - introduceva l’aziendalizzazione delle Usl, che si trasformavano in Asl (Aziende Sanitarie Locali), 'perdendo' le strutture ospedaliere di riferimento (alle quali veniva data una nuova autonomia amministrativa e sanitaria) e focalizzando l’attenzione del loro operato, oltre che sulle competenze sanitarie da svolgere, anche sull’attenta gestione economica delle prestazioni erogate, nel tentativo di contenere i costi in continua crescita del welfare state. Infine nel 1999, la Legge Bindi n. 229 veniva varata con l’obbiettivo di portare un’ulteriore 'razionalizzazione del sistema sanitario', dando più autonomia alle Regioni e introducendo il concetto di 'accreditamento' per le strutture sanitarie pubbliche e private al fine di garantire il miglior livello di prestazioni per i pazienti.
Nonostante i limiti passati e presenti, il nostro Servizio Sanitario Nazionale è tra i migliori a livello internazionale: secondo in Europa, quarto nel mondo nella classifica Blomberg di quest’anno. Un sistema imperfetto, ma da difendere, come sostiene con convinzione Giuseppe Remuzzi, medico apprezzato e autorevole, da poco anche nuovo direttore dell’Istituto di Ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, nel suo libro 'La salute (non) è in vendita' (Laterza, 2018), in cui affronta i punti critici del sistema e suggerisce possibili soluzioni per il suo miglioramento.
Il 1978 non è stato solo l’anno della riforma sanitaria, ma anche quello di un importante cambiamento in ambito psichiatrico. La Legge n. 180 del 13 maggio 1978, nota anche come legge Basaglia (dal nome dello psichiatra veneziano Franco Basaglia, ispiratore e artefice di questa riforma), portava alla chiusura dei manicomi. Nell’ottica della riforma la malattia psichiatrica non veniva più vista come condizione patologica diversa e dissimile da quella di altre malattie per le quali era possibile un approccio diagnostico-terapeutico senza necessità di ospedalizzazione. Un’autentica rivoluzione anche in questo ambito. Con la nuova normativa (inglobata pochi mesi dopo nella legge 833 istitutiva del SSN) l’Italia diventava il primo Paese al mondo a de-istituzionalizzare i malati di mente, delineando un passaggio epocale nell’assistenza psichiatrica.
Questo 2018 che si avvia a conclusione è ricco anche di altre ricorrenze che ricordano tappe importanti nella storia sanitaria italiana. Sessant’anni fa, nel 1958, per scorporo dal Ministero dell’Interno, nasceva il Ministero della Sanità (ora Ministero della Salute, com’è stato ridenominato dal 2001): un significativo indice dell’importanza che in ambito istituzionale e sociale stavano assumendo i problemi igienico-sanitari. Dieci anni più tardi la cosiddetta Legge Mariotti dava vita nel 1968 a una riforma che disciplinava la struttura, l’organizzazione e la funzione degli ospedali, trasformandoli in enti pubblici. Ciò che ancora oggi resta valido di questi momenti storici della nostra sanità – alcuni superati, altri riformati – è l’idealità che li aveva ispirati: cercare di dare un’assistenza sanitaria adeguata a tutti, senza distinzione tra condizioni sociali ed economiche, culturali e religiose, senza discriminazioni tra italiani e stranieri, senza pregiudizi di sesso e di origine. Un messaggio più che mai attuale in questa nostra società sempre più multietnica e interculturale.