Lette nell’insieme, le interviste (in Il futuro della fede, ci permettono di tracciare una mappa sufficientemente precisa della frattura in atto tra giovani ed esperienza cristiana, almeno così come è normalmente proposta e vissuta nelle nostre istituzioni ecclesiali e dalle nostre azioni pastorali. Ai giovani la fede cristiana non interessa più, viene vista eventualmente come una dimensione da collocare tra le pratiche che possono riempire il tempo libero, perché – come gli stessi genitori e soprattutto gli educatori hanno ormai registrato – non c’è più corrispondenza tra l’universo semantico creato dall’annuncio del Vangelo e quello invece acceso dalle attese antropologiche che animano i giovani di oggi. Noi parliamo di Dio, del Dio di Gesù Cristo; il nostro discorso può essere anche accattivante... il problema è che non ha audience, non intercetta le domande e le attese sulle quali sono sintonizzati i giovani.
Tre esempi ci aiutano a comprendere questa frattura in atto. Primo dato: la fede cristiana annuncia una salvezza che vede il presente come una sorta di grande preparazione alla vita dopo la morte (quella vera: basti pensare a tutte le metafore del capovolgimento morte/vita che anche il Vangelo contiene); i giovani invece si aspettano dalla dimensione religiosa un aiuto e un soccorso per impostare un presente che ai loro occhi è troppo precario e incapace di rispondere alla domanda di felicità che li brucia dentro. Secondo dato: il cristianesimo annuncia il volto di un Dio che in Gesù Cristo suo Figlio ci redime dal peccato, ci purifica dal male; i giovani si immaginano un dio taumaturgo, dal quale attendersi guarigioni e aiuti, liberazione (dai condizionamenti sociali e culturali ereditati, spesso percepiti come peccato) per uscire da uno smarrimento esistenziale che li logora. Infine, terzo dato: il cristianesimo annuncia un’esperienza di fede che è sociale, esperienza di raccolta dei popoli che abbatte muri e apre all’universale; i giovani si aspettano dall’esperienza religiosa sicurezza, e quindi confini e perimetri, possibilità di difesa e di identificazione. (...)
Il Sinodo che si celebrerà a Roma va letto in tutta la sua carica simbolica. Abbiamo bisogno di un evento sinodale per evitare che la rottura (con il clima acido che genera) sia l’ultima parola. E non soltanto in senso metaforico: una istituzione che fatica a dialogare con le giovani generazioni fatica di conseguenza a costruire il proprio futuro. Cattolici anonimi e nomadi, pronti a consumare grandi rotture, i giovani non hanno perso la capacità di lasciarsi attrarre e trasfigurare dalla fede cristiana. Le fratture create non sono l’ultima parola; lasciano spazi alla possibilità di declinare la fede e l’esperienza cristiana in nuove strade, anche dentro la cultura e l’antropologia che le rivoluzioni tecnoscientifiche e il mondo digitale stanno sempre più trasformando.
Il futuro della fede dipende proprio da questa attitudine: dalla capacità che la Chiesa ha di sorvegliare e riorientare i processi di decostruzione e di ricostruzione che la cultura in cui abitiamo impone alla nostra fede, alla sua figura istituita. Si tratta in altre parole di svolgere anche nel presente quel compito che i padri conciliari cominciarono ad avviare durante il Concilio Vaticano II: rileggere la tradizione ecclesiale alla luce del contesto odierno, per permettere ai tratti salienti e profondi dell’esperienza cristiana di brillare di nuova luce, proprio perché rideclinati e ridetti con linguaggi nuovi dentro la nuova cultura che il cristianesimo voleva abitare da protagonista.
Valgono al riguardo le intuizioni illuminanti di un esegeta che ci ha permesso di capire meglio come si sviluppa il processo della scrittura e della trasmissione della Parola di Dio, inteso come processo di generazione e trasmissione della fede cristiana. Forte della sua pratica delle Scritture, Paul Beauchamp ci ha insegnato che l’esperienza cristiana è frutto di un processo intricato di continua e ripetuta consegna, ricezione e annuncio della nostra memoria fondatrice. Il frutto di questo processo non è un prodotto ulteriore, un nuovo libro, ma un legame rinnovato e rafforzato: un corpo nuovo, che con la sua presenza e la sua vitalità testimonia l’avvenuto processo di scrittura della parola dentro la storia. Sentire, raccontare, generare.
La Chiesa – e non solo quella italiana – ha bisogno che la sfida che stiamo vivendo oggi dentro il mondo dei giovani sia percepita e assunta in questo modo, come una esperienza di rigenerazione del corpo cristiano. Non quindi una sfida che ci vede contrapposti ai giovani, ma una sfida che ci vede alleati con loro: per coinvolgerli in questo processo di scrittura, per riaccendere questo dinamismo di consegna, ricezione e annuncio. Per generare quel corpo rinnovato e sempre giovane che è la Chiesa, popolo di Dio dentro la storia, corpo di Cristo vivificato dall’azione rigenerante del suo Spirito.