Il 9 marzo 2020 l'allora premier Giuseppe Conte in conferenza stampa a reti unificate annuncia il Dpcm «Io resto a casa»: «Le nostre abitudini vanno cambiate ora: dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell’Italia, dei nostri cari, dei nostri genitori, dei nostri nonni. Lo dobbiamo fare subito». Ci si può spostare solo per «comprovate esigenze lavorative», sospese le scuole, chiusi musei e teatri, vietate le cerimonie religiose (funerali compresi). La Penisola sperimenta il lockdown totale.
Il 13 marzo 2020 l’Italia s’affaccia ai balconi di casa. Doveva essere una specie di flash mob "domestico", divenne un fenomeno nazionale insieme all’augurio-ritornello «Andrà tutto bene»: ci si dà appuntamento alle 18 sui balconi di casa per cantare l’inno nazionale, come segno di unità nella resistenza al virus. Poi sarà la volta di altre canzoni «di resistenza» e piccoli concerti en plein air.
Il 4 maggio 2020 parte la sospirata «fase 2»: sì agli incontri con i familiari più stretti, ripresa delle attività motorie, mascherine obbligatorie solo nei luoghi chiusi... Sembra il ritorno alla normalità. Ma il tempo mostrerà che purtroppo è solo una riapertura provvisoria.
Tra i suoi molti altri effetti, il virus ci ha spogliato di tutte le certezze che parevano esserci sufficienti, ponendoci di fronte a noi stessi. È come se ci avesse privati di una corazza e di una maschera, tanto che è dovuta uscire allo scoperto la nostra parte più profonda e più vera. La vita, e cosa la nutre davvero. L’anima, e di cosa vive. La fede, quindi, chiamata a mostrarsi in ciascuno di noi così com’è, e quanto vale.
Tutto questo è accaduto mentre la "vita religiosa" – intesa come combinazione di pratiche private e pubbliche, frequentazione della parrocchia, impegni associativi e di formazione – ha dovuto scontare la sospensione delle attività che la animano, dapprima brusca e lunga, poi intermittente, sino a questi giorni, instillando in molti – specie i più giovani – l’idea di un tempo sospeso anche nella religiosità. Venuta meno l’abitudine degli appuntamenti comunitari nel modo in cui li conosciamo, siamo stati messi nelle condizioni di vedere la sostanza che costituisce la nostra fede misurandone così la consistenza, il bisogno, la forza, la capacità di ispirare, correggere, consolare.
Le immagini di questa galleria evocano alcune situazioni di cui siamo stati partecipi o testimoni. Esattamente come ogni altra dimensione importante della vita, la fede è stata messa alla prova dal Covid che ne ha saggiato la tenuta e la maturità, in alcuni casi scoperchiandone l’insospettata fragilità, in altri riaccendendola dopo una lunga incuria. Un anno dopo, guardiamo allora queste foto e chiediamoci: a che punto è la mia fede? Cos’ho scoperto sul suo conto, che non sapevo? E che relazione vivo oggi con la religione e la famiglia dei credenti? Domande esistenziali che corrono in parallelo all’osservazione di cosa la Chiesa è stata in grado di realizzare lungo questi mesi sofferti, mettendo in campo risorse spirituali, caritative e di creatività pastorale che hanno generato forme nuove di prossimità, impegni caritativi a tutto campo, spazi e modi inediti di spiritualità condivisa e di fraternità.
Nel deserto della pandemia la Chiesa fa compagnia alla nostra umanità scoraggiata, impaurita e oggi anche esausta, chiedendoci con le parole del Papa – pellegrino con noi verso un futuro incerto – di interpretare la prova come un’opportunità e di imparare a distinguere ciò che ci è essenziale per vivere e credere, sentendoci oltre ogni sterile individualismo «sulla stessa barca». Mai come oggi, «Fratelli tutti»
Con volti e mani di persone che si sono fatte accanto al prossimo, la Chiesa ha mostrato che la fede muove la vita verso le necessità degli altri e genera senza sosta una speranza certa: nulla può piegare chi crede, neppure la morte. Un anno dopo, è forse questa evidenza che ci mostra la nostra fede.