Un bambino molto piccolo, scalzo e con addosso solo una lunga maglietta, ci viene incontro correndo sulle macerie. Sorride, facendoci vedere due pacchetti di biscotti stretti nelle due manine nere di fuliggine e fango. Dietro a lui altri bambini e una donna anziana mangiano attorno a un fuochi acceso per terra.
A fianco una specie di giaciglio dove dorme la donna, peggio di una cuccia. Tutto attorno, dentro un capannone sfondato, ci sono pezzi di muratura, lamiere, eternit. Scene di guerra, ma qui non siamo in guerra. Almeno quella con le armi. Piuttosto è guerra all'umanità, alla dignità, al rispetto delle persone. Siamo tra i 450 rom, il 60 per cento minori, sgomberati una settimana fa a Giugliano in Campania dal campo in cui vivevano da tre anni. Il sesto o settimo sgombero negli ultimi venti anni. E senza mai realizzare vere soluzioni alternative e finalmente definitive. Oltre che rispettose delle persone.
Ora sono qui, in una azienda abbandonata, vicino allo svincolo di un importante asse stradale, tra macerie, fango, senza acqua nè luce. "C'erano tanti rifiuti e abbiamo pulito", dicono. Ci sono arrivati dopo aver peregrinato per ore, accolti con sospetto, allontanati, provocando allarmismi e chiamate alla Polizia. E perfino "editti" di amministrazioni locali.
Ci accompagna don Francesco Riccio, parroco di San Pio X e responsabile dell'ufficio comunicazioni sociali della Diocesi di Aversa. Viene qui più volte al giorno, come i volontari della Caritas diocesana. Fin dal primo giorno. Perché qui c'è solo la Chiesa accanto a queste persone abbandonate. Lo stesso vescovo Angelo Spinillo è venuto in questa favela lo scorso 11 maggio e segue con attenzione la vicenda per trovare una soluzione.
Appena arriviamo è un vero assedio. Chiedono scarpe, vestiti, latte per i più piccoli. Ma ci vogliono anche spiegare. «Siamo cittadini italiani, abbiamo il passaporto » dicono, facendo vedere i documenti. «Qui sono nato e cresciuto, e ho vent'anni». Vengono dalla Bosnia, ma sono qui da almeno trenta anni. E i giovani sono tutti nati qui, e dunque italiani, ma senza veri diritti. Sono stati nell’Asi, poi vicino a una discarica, infine nel 'fosso', dove sono stati sgomberati il 10 maggio perché, a detta del sindaco, erano in una condizione di degrado.
«È vero, ma almeno c’erano acqua, elettricità e bagni chimici – ci dice Giuliano, 37 anni, arrivato in Italia coi genitori quando aveva pochi mesi – . Ora invece non abbiamo niente. Ci portino i 6 bagni che avevamo, almeno per donne e bambini. Siamo umani!». Una donna ricorda che «i bambini andavano a scuola. Ora no. Non si possono lavare».
E di bambini ce ne sono davvero tantissimi. Il più piccolo, appena dieci mesi, dorme in un furgone accudito dalla giovanissima mamma, mentre un’altra donna sta per partorire ma anche lei dorme in auto.
Come tutti. O dentro i capannoni ad alto rischio crollo. «Se ci dicono che possiamo restare ci organizziamo. Mettiamo tutto a posto. Abbiamo già tolto tutti i rifiuti». «E non erano pochi» sottolinea don Francesco, mentre pazientemente si appunta tutte le richieste.
In attesa che si muovano le istituzioni, come sempre, la Chiesa c’è. «Se gli permetteranno di restare – sottolinea il sacerdote – i giovani della parrocchia sono pronti per aiutarli a sistemare l’area». «La Caritas diocesana – ci spiega il direttore don Carmine Schiavone – ha scelto di esserci, 'abitando' il campo e ma anche dialogando con l’amministrazione comunale e sensibilizzando la gente. Abbiamo portato acqua, pane, latte, biscotti. Anche con la pioggia. Ora siamo impegnati a trovare delle tende».
Chi dona e chi ne approfitta. Anche nel poco. Mentre parliamo coi rom, arriva un’auto piena di pentole con la pasta al sugo. «È una signora di Giugliano, la vende a un euro a piatto» spiega ancora don Francesco. Ma c’è la fila. «Abbiamo paura che ci sgomberino un’altra volta. Ci dicano dove andare, però. Se facciamo di testa nostra combiniamo guai. Dobbiamo integrarci ma ci devono aiutare» dice ancora Giuliano. E un altro aggiunge: «Chiediamo un terreno per poter vivere insieme. Ci vogliono dare 5mila euro a famiglia per trovare una sistemazione. Ma chi ci affitta una casa? Il Comune dovrebbe garantire».
«Ci sono tanti beni confiscati abbandonati. Coi soldi che ci vogliono dare potrebbero sistemarli. Possiamo farlo anche noi e costerebbe meno» dice ancora Giuliano e ci porta a vedere uno di questi palazzi. È nel 'Parco Rea', ex residenza del boss Francesco Rea e del suo clan.
È degradato da decenni, proprio a fianco alla caserma della Finanza realizzata un un altro edificio confiscato. «Così tutti saranno tranquilli» scherza Giuliano. Non l’unica proposta. Ci fa vedere un terreno abbandonato vicino al mercato ortofrutticolo. «È ottimo: è asfaltato e ci sono luce e acqua, ma ci hanno detto di no». E ora, infatti, è stato sbarrato con grandi blocchi di cemento. Proprio non li vogliono. E allora, con un velo di tristezza, Giuliano ricorda. «Nonno, nonna e alcuni figli sono finiti nei lager nazisti. E non sono mai tornati...».
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