Aya e Yasmin Inbar sono madre e figlia, rispettivamente psicologa clinica e Ceo di una Ong specializzata nella cura dei diversamente abili. Come tutti gli israeliani, terminate le superiori hanno servito come militari nell’esercito. Per due anni: l’obbligo di leva per le donne. Ora, mentre continuano a svolgere il loro lavoro - insieme a quello di madre e nonna full time visto che le scuole sono chiuse - si alternano per aiutare un Paese in difficoltà su tutti i fronti tranne uno: quello della resilienza, che è poi ciò che da 75 anni che garantisce la sopravvivenza di Israele.
Oltre all’esercito di soldati c’è un intero esercito di volontari, in coda, chi per donare il sangue, chi per donare e organizzare provviste, sia per i soldati che per i rifugiati che hanno dovuto abbandonare le loro case al sud, dove interi kibbutz e moshav sono stati messi a ferro e fuoco dalle milizie di Hamas.
Oltre al supporto logistico serve, e servirà a lungo, anche quello psicologico.
Quindi mentre Yamsin organizza la sistemazione degli sfollati attraverso una rete di strutture alberghiere che si sono date disponibili in tutto il Paese, Aya si occupa dell’assistenza piscologica ai sopravvissuti al massacro. Come ci spiega: “Il nostro intervento sarà fondamentale non solo sul breve ma anche sul lungo periodo, non solo per i superstiti e per i soldati, ma per qualunque cittadino israeliano. Questa guerra è appena cominciata e non sappiamo ancora quando finirà. Ma quanto prima avremo tutti da fare i conti con una situazione cronica di post-trauma. Eppure è in momenti come questo che emerge il vero spirito del nostro popolo, che non si arrende mai. C’è, nel vero senso della parola - continua Inbar -, una fila di volontari in coda per aiutare la nostra nazione. Laddove siamo stati abbandonati dal governo ci sono i cittadini, gli stessi che per 39 sabati hanno sfilato a Kaplan street e che ora sono in coda al porto di Tel Aviv per portare viveri e generi di prima necessità. L’aiuto è duplice: non solo per chi non ha una casa, ma anche per noi stessi. Abbiamo bisogno di sentirci tutti direttamente coinvolti, di partecipare ognuno con il nostro contributo, per sentirci parte della patria e colmare il vuoto lasciato dalla leadership politica”.