Santa Sofia, come siamo abituati a chiamarla, ossia Aghia Sophia com’era stata intitolata alla fondazione, Ayasofya come la chiamano i turchi: non è mai vissuta fuori dalle controversie. Fondata probabilmente sul modello delle basiliche romane – la tradizione dice da Costantino – e completata dall’imperatore Costanzo II nel 360, ma incendiata poi nel 404 in seguito a una rivolta, venne riedificata come la più ricca e imponente chiesa della capitale imperiale da Giustiniano, che ne mantenne la dedicazione alla Divina Sapienza (in greco, appunto, Aghia Sophia), vale a dire alla Seconda Persona della Santissima Trinità, il Figlio L’imperatore e legislatore affidò agli architetti Isidoro di Mileto e Antemio di Tralle un complesso lavoro di totale ristrutturazione che durò solo cinque anni in quanto sostenuto da un finanziamento colossale.
La sua immensa cupola, di circa 30 metri di diametro, crollò nel 555-556 e venne sostituita da un edificio di ridotte dimensioni che tuttavia, con i suoi 61 metri di altezza, 77 di lunghezza e 71 di larghezza, era comunque il più straordinario monumento dell’impero. Marmi e metalli preziosi furono impiegati a profusione per l’edificio, completamente rivestito all’interno di mosaici. Le pietre e le colonne che erano state utilizzate per costruirlo provenivano, a quanto si diceva, da diversi luoghi dell’impero, a cominciare dal saccheggio del grande tempio di Artemide a Efeso.
A partire dal VII secolo l’Impero romano d’Oriente, che siamo soliti chiamare Bisanzio, fu scosso dalla crisi iconoclasta; diversi imperatori aderirono al movimento contrario alle immagini sacre, fino a quando il lungo periodo di contese si concluse sotto il regno del basileus Michele allorché una cerimonia in Aghia Sophia, tenuta l’11 marzo dell’843, riaffermò solennemente e definitivamente il dettato del secondo concilio di Nicea, legittimando di nuovo la proskynesis (prostrazione) dinanzi alle immagini: secondo un culto di adorazione per Dio, di venerazione per Maria, gli angeli, i santi. Simbolo dell’unità religiosa dell’impero, la chiesa fu gravemente minacciata nelle fasi preliminari della conquista latina di Costantinopoli, nel 1204: in quell’occasione un gravissimo incidente avvenne mentre Alessio IV, il giovane principe che i “crociati” avevano rimesso sul trono, insieme al padre dopo un colpo di stato dello zio, in cambio della promessa di ingenti ricompense, era fuori dalla città accompagnato da alcuni dei baroni franchi in una spedizione contro i bulgari. Una banda di fiamminghi, pisani e veneziani mossero un attacco contro il quartiere musulmano per depredarlo: i residenti risposero con l’aiuto dei greci. Le conseguenze furono terribili perché un incendio divampò e il vento spinse le fiamme in profondità, estendendosi per circa 500 metri e arrivando a sfiorare Aghia Sophia. Seguirono settimane di tensione, al culmine delle quali i crociati saccheggiarono e conquistarono la capitale; preventivamente, i capi della crociata si erano riuniti per accordarsi sulla suddivisione del bottino e dell’Impero: al patriarca veneziano andava Aghia Sophia, convertita dalla confessione greca a quella latina che gli occupanti volevano imporre a una capitale recalcitrante.
Proprio in quella sede il 16 maggio del 1204 il conte Baldovino IX delle Fiandre venne incoronato imperatore di Costantinopoli mentre il veneziano Tommaso Morosini ne divenne patriarca. Così, quando con l’aiuto dei genovesi, nemici dei veneziani, i greci riconquistarono la città, o quel che ne restava dopo le devastazioni, il 13 marzo 1261 fu sempre in Aghia Sophia che Michele VIII fu incoronato basileus. Chi vuol saperne di più può leggere adesso il bel libro di Marina Montesano, Dio lo volle? (Salerno editore, 2020). L’impero bizantino si trascinò stancamente per un paio di secoli, fino a quando gli ottomani non misero fine all’agonia; tuttavia, non prima che i cattolici imponessero, in cambio dell’aiuto (che comunque non arrivò mai) contro il Turco, la forzata riunione dei greci alla Chiesa di Roma: l’imperatore accettò, mentre buona parte del clero ortodosso e del popolo costantinopolitano si ribellava, e fu ancora in Aghia Sophiache il 12 dicembre del 1452 alla presenza del cardinale Isidoro patriarca latino di Costantinopoli, appositamente giunto da Roma, che si celebrò la fine dello scisma iniziato nel 1054. Dopo la conquista ottomana del 1453, il sultano Mehmet II convertì la chiesa in moschea: come dicono molti cronisti dell’epoca, fra i quali il fiorentino Cristoforo Buondelmonti, al momento della conquista l’edificio si trovava in uno stato fatiscente.
I restauri e gli abbellimenti continuarono sotto i successori del conquistatore; gli ultimi lavori importanti, realizzati verso la metà dell’Ottocento, furono affidati ad architetti italiani. Dopo lo smantellamento dell’impero ottomano e la rivoluzione nazionalista di Mustafa Kemal Atatürk, nel 1935 si volle trasformare Ayasofya in un «tempio laico», cioè in un museo, in linea con la politica del governo. In anni recenti il presidente Recep Tayyip Erdogan ha permesso, se non favorito, il ritorno di diversi edifici del Paese a luoghi di culto: Chora, un’altra chiesa bizantina di Istanbul che pure era diventata una moschea e poi un museo è ora di nuovo moschea; e fuori dalla capitale edifici simili a Iznik e Trabzon. Da un paio d’anni a questa parte il presidente promette (o minaccia: secondo i punti di vista) di fare lo stesso con Ayasofya che tornerebbe al suo ruolo di luogo di culto. Va detto ch’esso è stato tale – cristiano latino, cristiano greco o musulmano – per oltre 1.500 anni. Evidentemente Erdogan intende con ciò ottenere ulteriore consenso da parte della base tradizionalista (se non proprio fondamentalista) del suo partito, cercando di distogliere l’attenzione da una gestione politica a dir poco controversa.
Di per sé, il suo ritorno alla funzione sacra originaria può certamente ferire, e le reazioni di tutto il mondo cristiano (non solo) ortodosso lo dimostrano, ma non dovrebbe stupire: soprattutto alla luce del fatto che, come capitale di due imperi, quello romano e quello ottomano, Aghia Sophia/Ayasofya non è mai stata un simbolo neutro. Lo “strappo” vero, più che nel 1204 quanto il santuario passò dai greci ai latini o nel 1453 quando passò dai cristiani ai musulmani, avvenne durante il regime laicista di Kemal, in tempi nei quali perfino il nominare il nome di Dio in Parlamento era considerato un crimine. Oggi, un ritorno parziale al culto, in giorni speciali o attraverso l’organizzazione di uno spazio interno a «sala di preghiera», potrebbe essere comprensibile e persino maturo – si pensi alla visionaria e dirompente proposta del Patriarca armeno di Costantinopoli di consentire sia il culto musulmano sia quello cristiano – eppure accende diatribe e rinfocola dolorose divisioni. I veri problemi sono di altro ordine: interni alla Turchia, al mondo musulmano nel suo complesso e a tutta la nostra società.
Erdogan persegue da anni una linea di ricerca di consenso in ambienti religiosi che vanno dal pietismo al fanatismo; ciò accade anche in molti altri Paesi musulmani nei quali i governi sembrano consentire sempre di più spinte religiose di vario genere, magari per motivi strumentali; e, spiace dirlo, si rilevano gli stessi atteggiamenti anche nel nostro Occidente laico e democratico. Dietro la volgarità demagogica – e obiettivamente blasfema – dei simboli religiosi ostentati e della preghiere scandite al microfono dinanzi a piazze piene di militanti, è questa nuova strategia di uso del Sacro che coinvolge molti: musulmani, ebrei, cristiani. Contro questi atteggiamenti è necessario vegliare con il massimo rigore al fine d’impedire l’insorgere di equivoci.