Un gruppo di sminatori al lavoro su una strada alla periferia di Borodyanka - Lucia Capuzzi
Non è necessario leggere il cartello. È la fila ininterrotta di condomini carbonizzati a indicare l’entrata a Borodyanka. Sulla cittadina, una settantina di chilometri ad ovest di Kiev, la guerra si è accanita con speciale ferocia. Colpa di una manovra errata di Mosca, ripetono gli abitanti. Nei primi giorni dell’invasione, alla fine di febbraio, le colonne russe provenienti da Chernobyl l’avevano attraversata nella marcia verso la capitale. Una parte delle truppe si era imbottigliata nelle strade a ridosso del centro, diventando facile bersaglio della resistenza ucraina. Costretta a indietreggiare e a contare varie perdite, l’unità aveva deciso di dare una punizione esemplare al sobborgo ribelle. Gli scheletri delle costruzioni – il benzinaio, il mercato, il parco giochi – ricordano quei giorni di fuoco in cui oltre l’80 per cento degli edifici è stato distrutto. Ancora non si conosce quanti dei 13mila residenti siano morti. Di certo, ora a Borodyanka vivono in pochissimi. «Chi non ha un altro posto dove andare... Non c’è più nulla. Le case ancora in piedi sono danneggiate. È rimasto in piedi un solo negozio di alimentari, scarsamente rifornito. Per questo aiutiamo i superstiti con qualche pacco», spiega Anatoly mentre scarica velocemente i due scatoloni presi dalla scuola di Podol, uno dei centri in cui i volontari di Kiev raccolgono viveri e medicine e li distribuiscono nelle aree più colpite. Anatoly ha fretta. Borodyanka è a malapena una sosta di passaggio. «Dato che eravamo da queste parti». La missione è altrove. Sotto una pioggia battente che, nell’imprevedibile primavera ucraina, di tanto in tanto si trasforma in sole abbagliante, l’auto e il grosso camion bianco imboccano l’uscita e si inoltrano sulla strada che lacera come un bisturi la foresta.
Abeti, pini, castagni, su cui si scorgono nidi di cicogne si susseguono per chilometri. Sarebbe un paesaggio da cartolina se non ci si imbattesse di tanto in tanto nelle carcasse di blindati sui cigli dell’asfalto. Le carovana si ferma in procinto di due di esse. I nastri rossi e bianchi sugli alberi segnalano il punto esatto. «Qui ci sono mine o ordigni inesplosi. Come lo so? In genere, i cittadini ci segnalano luoghi dove ci sono stati movimenti sospetti. In questo caso, abbiamo un ulteriore indizio: i carri armati bruciati. Significa che sono stati colpiti da artiglieria pesante. Sono state sparati, dunque, molti proiettili. Quelli andati a vuoto saranno ancora nei paraggi», sostiene Alexander. «Il cognome non posso dirvelo per ragioni di sicurezza», aggiunge l’uomo, con oltre 13 anni di esperienza come sminatore, che coordina la squadra incaricata di bonificare l’area intorno a Borodyanka. Una delle ventuno che opera nella provincia della capitale: prima del 24 febbraio ce n’erano solo due. Insufficienti per rimuovere le decine di migliaia di ogive seminate ovunque nell’oblast dal conflitto. Così, sono arrivati rinforzi dal resto del Paese. E, dalla settimana prossima, si aggiungerà il supporto dall’estero. Il governo di Kiev ha appena istituito il Centro internazionale per lo sminamento umanitario, con l’obiettivo di coordinare le operazioni. Già venti organizzazioni dal resto del mondo hanno dato disponibilità ad intervenire. La Colombia, da parte sua – nazione che detiene il tragico record globale di mine sepolte dopo oltre cinquant’anni di guerra – ha annunciato l’invio di undici ingegneri militari per fornire un addestramento speciale ai colleghi ucraini. Mentre Washington ha appena stanziato 4 milioni di dollari per sostenere lo sminamento. Un impegno che durerà anni. Tra i cinque e i sette almeno, ha affermato Mary Hakobyan, vice-ministra degli Affari interni di Kiev, sulla base del calcolo Onu secondo cui, per ogni giorno di combattimenti, ce ne vogliono trenta di bonifica. Ma il lavoro potrebbe andare avanti ben più a lungo. In base alle stime del Servizio di emergenza ucraino, in oltre 300mila chilometri di territorio – in pratica la metà della nazione – sono stati seminati mine e ordigni. Solo nella provincia di Kiev ne sono stati trovati e rimossi 10mila. Oltre cinquemila di questi nella zona di Borodyanka. Dalla squadra, cioè, di Alexander: cinque ragazzi, già formati e specializzati nonostante la giovane età, provenienti dalla capitale e da Ivano Franco. Mentre parla, lo sminatore posa il metal detector su terreno, su cui disegna cerchi via via più ampi.
A un tratto, l’apparecchio emette un suono prolungato. È il segnale che qualcosa c’è e non è tanto distante. I cinque si scambiano rapide occhiate e si inoltrano con cautela nella radura scoscesa. Non ci mettono molto per individuare, sotto un albero, due proiettili inesplosi di artiglieria pesante. «Solo in questo punto, in due giorni, ne abbiamo scoperti dieci», dice Alexander. Gli sminatori si avvicinano agli ultimi due e li sollevano, uno dopo l’altro, con circospezione. Se li passano l’un l’altro e, infine, li caricano sul camion. «È un veicolo abilitato per trasportare materiale esplosivo. Viene riempita la parte di dietro e due persone a bordo stanno nella cabina di guida». Il resto della squadra sale sull’auto di appoggio e i veicoli, insieme, si dirigono al magazzino, il cui indirizzo viene tenuto rigorosamente segreto. Là, oggi, si svolgerà la “fase due” dell’operazione: l’esplosione controllata degli ordigni in modo da eliminarli. «All’inizio, dopo il ritiro dei russi del 2 aprile, dovevamo distruggerli ogni tre giorni, perché non sapevamo più dove metterli. Ne saltavano fuori ovunque: vicino alle case, nascosti fra le macerie, nelle strade più isolate e nelle radure». Secondo le autorità, però, la maggiore concentrazione si trova proprio nei boschi intorno ai villaggi, epicentro dei combattimenti durante le lunghe settimane di marzo. E là è più difficile individuarli.
Anche per questo, ora, il ritmo dei ritrovamenti, pian piano, sta diminuendo. E le esplosioni vengono effettuate, in media, ogni due settimane. «Stavolta ne faremo saltare oltre duecento. Tanti? Speriamo. Ogni ordigno distrutto significano vite di civili salvate. Ma là, in agguato, ce ne sono ancora troppi. Per questo, non possiamo fermarci».