Manifestazioni israeliane per il rilascio degli ostaggi - Ansa
Più che una trattativa sembra una tela di Penelope. Per settimane, i delegati del governo di Benjamin Netanyahu e quelli di Hamas intrecciano faticosamente i fili di un accordo. Egitto e Qatar si alternano nella funzione di riparare il telaio ogni volta – e accade spesso – che si inceppa. Gli Usa e l’Europa creano la cornice in cui si svolge il lavoro. Quando, ormai, ordito e trama stanno prendendo forma, improvvisamente, una delle fibre viene tirata con violenza e il tessuto completamente disfatto. È quanto sembrava accadere anche stavolta. Poi, ieri, il colpo di scena: il via libera di Hamas per bocca di Ismail Hanyeh. «Finora ci sono stati due negoziati paralleli. Uno più superficiale che avuto per oggetto il cessate il fuoco e lo scambio tra ostaggi e detenuti palestinesi. Punti sui quali le due parti potevano, ad di là di tutte le difficoltà, arrivare a un compromesso. Vi era, però, un secondo livello di contrattazione in cui l’obiettivo di una parte appariva incompatibile con quello dell’altra. Hamas doveva portare a casa lo stop al conflitto in modo da avere una “foto della vittoria” da esibire e potersi ritagliare un ruolo nel dopoguerra di Gaza. Per Netanyahu, era, però, vitale proseguire la contesa bellica dopo la tregua in modo da avere la sua “foto della vittoria”: la distruzione di Hamas, rappresentata dall’arresto o la morte di Yahya Sinwar o Mohammed Deif, i responsabili del massacro del 7 ottobre. Piuttosto che rinunciare in modo definitivo ai loro propositi, preferivano andare avanti con le ostilità». Che cosa è cambiato ora? Yonatan Mendel, docente di studi mediorientali dell’Università Ben Gurion con una specializzazione in lingua e cultura araba, è l’unico titolare di un corso accademico specifico su Gaza. Alla politica, la società, l’economia della Striscia ha dedicato molteplici pubblicazioni. Conosce, dunque, nel profondo stili e strategie di Hamas. Per questo, prova a azzardare una risposta, sull’onda dello scalpore suscitato dall’annuncio di Hanyeh.
«Ancora dobbiamo capire sia i dettagli del contenuto dell’intesa sia la reazione della coalizione al governo. Le mie, dunque, sono affermazioni a caldo. La mossa di Hanyeh ha passato la “patata bollente” a Israele senza rinunciare del tutto al proprio obiettivo. Diciamo che raggiunge un risultato e mezzo. Non dimentichiamo che le “foto della vittoria” sono narrazioni di successi e fallimenti, al di là della realtà. Hamas è convinta che dopo un cessate il fuoco di sei settimane la guerra non riprenderà e dice di avere avuto assicurazioni in tal senso. Una “foto” parziale. Al contempo, però, ottiene un altro risultato: mostrare ai palestinesi le immagini delle migliaia di prigionieri rilasciati di vari gruppi: Hamas, Fatah, Jihad islamica, incluso Marwan Barghouti che gode di un apprezzamento bipartisan». La palla torna a Israele. O, meglio, a Netanyahu, che aveva già accettato l’intesa, pur senza troppa convinzione. Ora deve decidere se e come procedere, al di là della retorica. Il costo politico di far saltare tutto potrebbe risultare salato date le crescenti proteste per gli ostaggi. D’altra parte, il premier sa che la propria coalizione potrebbe non reggere l’urto dell’accordo. «Con l’esperienza, ho imparato a non sottovalutare Netanyahu. Qualunque altro premier non avrebbe avuto scampo dopo la catastrofe del 7 ottobre: la peggiore dai tempi della Shoah. Invece è ancora al governo. Resterà anche dopo l’intesa? Difficile fare previsioni. Netanyahu, può, però, anche lui presentare una parziale foto della vittoria: nel testo non è esplicitata la fine del conflitto. E potrebbe vantare il traguardo di avere fatto rilasciare i sequestrati».
Per quanto riguarda Hamas, comunque, la strage e il conflitto, rappresentano uno spartiacque. «Non potrà più controllare Gaza come ha fatto fino al 6 ottobre. Questo non significherà, però, la sua scomparsa. Hamas è un’ideologia e un movimento, impossibile da sconfiggere con una guerra. Continuerà ad esistere indipedentemente dal fatto che l’ala militare smetta di amministrare la Striscia. In particolare, i quadri intermedi e i funzionari resteranno al loro posto. Anche il settore politico ha buone chance di avere una parte nel nuovo assetto. Un assetto comunque precario fin quando si continuerà a proporre soluzioni militari per questioni che sono politiche. Anche nell’attuale congiuntura ci sono, però, piccoli segnali di speranza. Uno mi riguarda personalmente: nell’attuale semestre, oltre cento studenti si sono iscritti al corso su Gaza. Perfino più del numero consueto. Segno che il 7 ottobre non è riuscito a uccidere il desiderio di conoscere e capire l’altro».