venerdì 18 ottobre 2024
Stati Uniti e Unione Europea insistono sul premier israeliano perché colga l'opportunità della morte del leader di Hamas, Sinwar. I familiari degli ostaggi temono vendette
In Yemen sostenitori degli houthi espongono l'immagine di Sinwar

In Yemen sostenitori degli houthi espongono l'immagine di Sinwar - Ansa

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È stato formulato con parole differenti. Il concetto, però, è il medesimo. Uno dopo l’altro, lo hanno espresso i principali leader internazionali, l’esercito israeliano e il Forum che riunisce i familiari dei rapiti da Hamas. La morte di Yanhya Sinwar rappresenta un’opportunità unica per attuare un cessate il fuoco e riportare a casa i 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza, 65 dei quali sono ritenuti ancora in vita. Al coro di appelli, interni ed esterni, finora, però, il premier Benjamin Netanyahu ha risposto con un silenzio poco rassicurante. Per tutta la giornata di ieri si è barricato nella Kyria di Tel Aviv, il quartier generale della difesa, per una maratona di riunioni con i propri ministri sul dopo-Sinwar. Nel frattempo, le operazioni militari sono andate avanti con tragica regolarità. Anzi, per certi versi, si può notare una accelerazione. Le forze armate di Tel Aviv (Tzahal, dall’acronimo) hanno detto di avere effettuato 150 raid nella Striscia e in Libano nel giro di 24 ore. Nuove truppe sono state inviate sul fronte nord.

Mentre, in quello sud, Tzahal ha intensificato l’offensiva sul nord dell’enclave, a cui si è unita la squadra di combattimento della Brigata Givati. L’epicentro dei combattimenti resta Jabalia, il più grande degli otto campi profughi di Gaza, dove, secondo fonti locali, i militari di Tel Aviv si sono fatti largo nel labirinto di vicoli con tank e lanciagranate. Decine di case sono state sistematicamente distrutte e altri trenta persone, in base alle cifre delle autorità sanitarie locali, sono state uccise. Nulla, dunque, sembra essere cambiato dall’uccisione di Sinwar avvenuta per caso mentre il leader – ritiene l’esercito di Tel Aviv – cercava di spostarsi a nord, verso al Mawasi. Sempre secondo la ricostruzione di Tzahal è morto dopo 12 ore di combattimenti cominciati quando, durante un pattugliamento, una squadra ha notato un ordigno inesploso vicino a una palazzina e si è avvicinata per disinnescarlo. Là ha notato la presenza di alcuni miliziani all’interno e ha fatto fuoco. Il capo di Hamas è rimasto ferito ma è riuscito, comunque, a raggiungere il secondo piano e a scagliare dei pezzi di legno contro il drone inviato dagli israeliani. A quel punto ha alzato la testa ed è stato colpito a morte. L’autopsia, in effetti, realizzata all’istituto forense Abu Kabir dal medico legale Chen Cohen ha confermato che a ucciderlo è stato un proiettile al cervello. Dopo l’esame, il corpo è stato portato in un luogo segreto.

Al di là dell’apparente stallo sul campo di battaglia, mai come ora, con la riconfigurazione degli equilibri, la situazione appare fluida. La prima incognita riguarda il nuovo assetto interno ad Hamas. In un video-messaggio diffuso su al-Jazeera, il numero due, Khalil al-Hayya, ha confermato «piangendo la morte del grande leader». E ha giurato che il gruppo armato ne uscirà rafforzato e continuerà la guerra contro lo Stato ebraico. Una retorica alquanto usuale dell’organizzazione che ha ricevuto cordoglio e solidarietà dagli alleati, primo fra tutti l’Iran. Più interessante la seconda parte del filmato in cui Khalil ha toccato due questioni cruciali: la successione e gli ostaggi. Il nuovo leader verrà scelto a breve e potrebbe essere lo stesso Khalil o qualche altro esponente fuori da Gaza mentre sul terreno la guida militare passerebbe al fratello Mohammed. Il vice di Sinwar – che è anche capo-negoziatore di Hamas – ha concluso con un riferimento ai rapiti: questi ultimi – ha detto – non saranno liberati finché i militari israeliani non si ritireranno dalla Striscia.

Retorica a parte, Hamas è consapevole del “valore” dei sequestrati, soprattutto in questo momento. Non è detto che, però, i 101 siano effettivamente tutti nelle sue mani. E, nel caos, il rischio di un colpo di testa da parte di un cane sciolto aumenta. Da qui la forte preoccupazione dei parenti, riuniti nel Forum che hanno rivolto un nuovo, toccante appello ai leader di Francia, Gran Bretagna e Germania affinché premano sulle parti per un accordo di rilascio. «Riportateli a casa perché possiamo iniziare a lavorare per un futuro sostenibile per i popoli di Israele e Palestina», ha detto Sharon Lifschitz, figlia dell’84 Oded, scrittore, giornalista e storico pacifista, catturato a Nir Oz. Oggi, da Tel Aviv dove è prevista la grande protesta dei parenti, il grido «Bring back homes», risuonerà per l’intera Israele. Nella speranza che, finalmente, i politici, dentro e fuori dal Paese, lo ascoltino.

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