Guerrriglieri di Timor Est che si oppongono agli invasori indonesiani. Siamo nel 2007 - Ansa/Epa
È una strana sorte quella di Timor Est. A 23 anni dalla fine del dominio indonesiano e a 20 dalla nascita della Repubblica indipendente il 20 maggio 2002, ancora arranca sul percorso democratico. Resta latente la lotta tra fazioni, perpetuando il conflitto mai sanato all’interno del Fretilin, il principale movimento guerrigliero trasformatosi in partito politico, tra i leader che hanno condotto la guerra di liberazione dall’esilio e coloro che hanno operato tra le foreste e le montagne di Timor.
Tutti ancora giustificano la loro presenza con i decenni di lotta contro il dominio indonesiano – ben 16.996 giorni – iniziato con lo sbarco dei marines di Giacarta sulla costa di Dili il 7 dicembre 1975 dopo la partenza degli antichi colonizzatori portoghesi (e il via libera degli Stati Uniti guidati dal presidente Gerald R. Ford, con Henry Kissinger segretario di Stato, che dopo la sconfitta in Vietnam cercavano alleati in Asia ndr). L’invasione aveva messo fine alla breve stagione di libertà pure segnata dalle divergenze interne al movimento per l’indipendenza.
Il potere rapace e brutale degli indonesiani è stato devastante per questa terra. Il genocidio perpetrato, in rapporto alla popolazione, ha uguali forse solo nella Cambogia dei Khmer Rossi. In base alle stime della Commissione per il riconoscimento, la verità e la riconciliazione, il numero dei decessi per carestia e violenze sotto l’occupazione indonesiana ha raggiunto e forse superato i 200mila su 800mila abitanti stimati nel 1999.
Una violenza di cui è stato testimone anche papa Giovanni Paolo II il 12 ottobre 1989 nella polvere e nel caos della spianata di Tasi-Tolu durante la sua breve visita a Dili che la Chiesa locale ricorda come «il momento in cui il mondo cominciò a conoscere la lotta dei timoresi per l’indipendenza».
Il viaggio procovò un crescente interesse internazionale che si concluse dieci anni dopo con l’intervento delle forze multinazionali per fermare i massacri successivi al referendum con cui la popolazione aveva scelto l’indipendenza.
Durante l’occupazione, presi tra i due fuochi delle forze armate indonesiane e della guerriglia, i timoresi hanno guardato alla fede cattolica introdotta dai portoghesi nel XVII secolo e soprattutto alla figura di monsignor Carlos Felipe Ximenes Belo, amministratore apostolico di Dili, come simbolo della loro identità.
Come un tempo, ancora la Chiesa resta fautrice di dialogo e riconciliazione, di stimolo per le politiche educative, sociali e per la pacificazione, mediatrice nei processi contro i collaborazionisti colpevoli di atrocità commesse durante la dominazione indonesiana.
Oggi Timor Est è un Paese povero. Eppure suolo e, soprattutto sottosuolo sono ricchi di risorse. La classe dirigente, però, sembra sempre guardare altrove, con un’evidente miopia congenita. Ha ancora come valuta il dollaro americano, un’economia sostenuta dagli aiuti internazionali e risorse sotto-utilizzate nell’incapacità di elaborare una politica di gestione dei vasti giacimenti offshore di gas e di petrolio.
Resta fragile la convivenza sul territorio di soli 8.900 chilometri quadrati con una popolazione di 1.3 milioni divisa per clan, etnie, interessi, fedi, lingue, ma il continuo e insistente rimando al tempo del conflitto come fulcro della sua identità rende ancora più acuta la sua crisi e allontana la pacificazione definitiva.