Baby profughi del Tigrai nel campo di Gedaref in Sudan - Ansa
Neppure l’Arca dell’Alleanza è stata risparmiata dall’orrore della guerra del Tigrai, ancora tutto da svelare. Circa 750 persone sono state massacrate nella città santa di Axum, dove avrebbe abitato la regina di Saba. La quale secondo la leggenda avrebbe ricevuto da re Salomone e portato in Etiopia, l’Arca, tuttora, custodita da un monaco, in una cappella del tempio ortodosso dedicato a Maria di Sion, proprio nella piazza dell’obelisco. Secondo diverse ricostruzioni effettuate ascoltando i testimoni fuggiti verso sud, autori del massacro finora nell’ombra sarebbero le truppe federali etiopi e le milizie alleate della regione Amhara. I fedeli che si trovavano nella chiesa ortodossa dedicata a Maria di Sion sarebbero stati uccisi per difenderla.
Avrebbero udito i soldati Amhara, arcinemici dei tigrini, gridare che l’Arca doveva essere portata ad Addis Abeba. I soldati avrebbero ucciso senza pietà i dimostranti usciti dalla chiesa. Una delle tante stragi consumate in silenzio e senza colpevoli in una guerra combattuta anche con social, tv satellitari e fake news a causa del blackout comunicativo sulla regione provocato dal governo federale di Abiy Ahmed, Nobel per la pace del 2019, il giorno dell’inizio del conflitto, il 4 novembre scorso, e prolungato ben oltre il 27 novembre, giorno della presa da parte delle truppe federali del capoluogo Macallè.
La notizia è stata confermata da diversi testimoni. Confermato che anche uno dei luoghi sacri dell’islam etiope, la moschea Nejashi a Wukro, costruita dai compagni di Maometto, è stata colpita e danneggiata. Dal Sudan, dove 60mila i tigrini sono fuggiti dal conflitto nei campi profughi, arrivano conferme della lunga catena di orrori. Dai sequestri di massa, alle torture, agli stupri e agli omicidi etnici di civili. In rete è stata pubblicata una lista di 400 vittime tigrine ammazzate dagli etiopi.
Bombardati a novembre anche molti ospedali mentre la situazione umanitaria della regione settentrionale etiopica sta peggiorando. Non si conosce né il grado dei danni né soprattutto chi abbia colpito gli ospedali commettendo un crimine di guerra. Secondo Unocha ci sono 2,2 milioni di sfollati e la situazione resta «volatile».
Scoppiato il 4 novembre scorso, il conflitto nel Tigrai tra l’esercito del governo centrale di Addis Abeba e i suoi alleati e le milizie regionali del Tplf non accenna a placarsi. Anche se il 27 novembre, dopo aver preso Macallè, il premier Abiy Ahmed ha dichiarato conclusa l’operazione di «polizia interna» contro i «criminali» del Tplf, i quali si sono dati alla guerriglia guidata dal leader Debretsion, governatore destituito della regione, del quale si sono perse le tracce. Resta tuttora sconosciuto il numero delle vittime militari e civili.
Accanto a un miglioramento dell’accesso a cibo e acqua scarseggiano le medicine. Continua, inoltre, il saccheggio di aiuti umanitari in alcune zone. Per l’agenzia Onu finora solo 77mila persone a Macallé e 25mila nei due campi per rifugiati eritrei di Mai Ayni e Adi Harush hanno ricevuto aiuto. Ocha non è ancora potuta entrare negli altri due campi di Hitsats e Shimelba che secondo immagini satellitari trasmesse dall’agenzia Bloomberg sarebbero semidistrutti.
Come ha confermato anche il quotidiano britannico Telegraph, nonostante le ripetute smentite ufficiali anche con il segretario generale Onu Antonio Guterres, soldati eritrei si trovano nell’area e avrebbero ucciso molti connazionali rifugiati, rimpatriando a forza migliaia di giovani. L’esercito etiope ha ucciso giovedì scorso quattro alti funzionari del partito e ha arrestato nove membri dell’ex partito di governo della regione, tra i quali l’86enne Sebhat Nega, cofondatore e ideologo del Tplf, mostrato in televisione mentre veniva ammanettato e trasportato ad Addis Abeba. Ma oltre all’arresto del vecchio «Papà Sebhat» ex governatore, ha fatto scalpore il filmato trasmesso dalla agenzia ufficiale Ena che mostra due militari in uniforme dell’esercito eritreo, uno seduto e l’altro intento a filmare l’arresto.
È la terza prova, in una settimana, della partecipazione delle truppe del regime di Asmara. Che sono ora impegnate in intensi combattimenti nell’area nordoccidentale di Endebaguna contro il Tplf in un conflitto che doveva essere interno.