«Sapevamo che la base militare di Barze sarebbe stata un obiettivo degli americani, ma non sapevamo quando l’attacco sarebbe accaduto – dice al telefono, da Barze, quartiere nel nord di Damasco, Samira, 45 anni, impiegata ministeriale e madre di Usama,14 – L’incertezza mi ha fatto provare un nuovo tipo di angoscia, diversa da quella che avevo sotto i bombardamenti regolari». Verso le quattro del mattino Samira, e gli abitanti della parte settentrionale di Damasco, hanno sentito una forte esplosione. Stavolta però non era l’esercito siriano contro i ribelli, ma i razzi lanciati contro diverse basi militari del regime di Bashar Al-Assad dalla coalizione di Usa, Francia e Regno Unito per punire il presunto utilizzo di armi chimiche.
«Quel che abbiamo sentito nella notte, comunque, non è niente in confronto a quel che abbiamo vissuto dal 2012 al 2014 – sospira Samira –. I bombardamenti avvenivano in pieno giorno, a volte assistevo a delle sparatorie in strada mentre ero in macchina per andare al lavoro». In quegli anni Barze, per via della sua importanza strategica, era entrata negli obiettivi dei ribelli anti Assad, prima che le forze jihadiste ripiegassero nella Ghouta orientale, dove l’attacco chimico di sabato 7 aprile avrebbe aggiunto altre 43 vittime a una guerra che dal 2011 ha provocato più di mezzo milione di morti. Il bombardamento a base di cloro, secondo gli oppositori del regime, sarebbe servito cinicamente ad accorciare i tempi dell’offensiva militare iniziata due mesi fa dall’esercito. Risparmiando così uomini e risorse. In questo contesto, gli attacchi di ieri da parte della coalizione occidentale, a detta dei gruppi ribelli, non servirebbero a nulla.
Mohammad Alloush, di Jaish al-Islam, l’ultima fazione islamista ad abbandonare Duma, dopo la sconfitta nella Goutha orientale, ha parlato alla Bbc di «attacco insignificante». I raid occidentali hanno solo parzialmente danneggiato l’esercito lealista, e il timore, ora, è che i militari concentreranno le loro forze per colpire Idlib, l’ultima roccaforte dei ribelli. Ma anche a Damasco la gente non dorme sonni tranquilli, soprattutto nelle zone sensibili. Come Amira, che vive a Barze, area filo governativa: «Verso le quattro del mattino ho sentito un forte boato– racconta –. A questo genere di risvegli ci sono abituata – ammette – ma stavolta siamo noi nel mirino e la cosa mi preoccupa». A tre chilometri da casa di Amira, verso sud, c’è il vecchio aeroporto militare di Barze, poco più a nord ci sono anche le basi militari sul monte Kasioun.
Salwa, invece, vive a Jemraya un’area tra l'aeroporto internazionale e la Goutha orientale. Molto prima di ieri la guerra aveva già danneggiato i suoi nervi e da diversi anni soffre di depressione. «Mia figlia che vive all’estero è venuta a trovarmi tre settimane fa - racconta Salwa – quando ha sentito le esplosioni nella notte è andata nel panico e si è messa a piangere. Mi dispiace che abbia dovuto sperimentare questa sensazione di paura e impotenza, è terribile».
Ma oltre alla paura c’è anche la delusione, tra chi stava provando a voltare pagina. Abu Talal, un autotrasportatore con sei figli, si è detto dispiaciuto per questi nuovi raid perché stanno rallentando i lavori di ristrutturazione della sua casa a Ein Tarma, nella Goutha orientale. Non vede l’ora di rientrare nel suo appartamento, dopo aver passato tre anni da suo padre, insieme alle famiglie dei suoi tre fratelli, tutti fuggiti da Ein Tarma a causa dei bombardamenti.
Mahmud Issa, che ieri è sceso in piazza a manifestare a favore del governo, si è detto fiducioso che non ci saranno nuovi raid. «Il messaggio è arrivato – dice – non c’è bisogno di colpire di nuovo, in fondo tutti vogliamo evitare che la Siria diventi un califfato».
Angoscia e paura. Ma la gente è ormai abituata alle bombe, sono anni che si combatte e si muore in questo Paese tormentato.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: