I moderni grattacieli dei Paesi del Golfo non sono molto diversi dalle piramidi costruite dagli antichi egizi. Monumenti di cui gode un’élite di privilegiati, costruiti col sangue e il sudore di lavoratori senza diritti. Egiziani e nord africani, ma anche bengalesi, indonesiani, vietnamiti e pachistani costituiscono la forza lavoro che di fatto permette alle economie del Khaleej di crescere. Gli uomini impiegati nei trasporti e nelle infrastrutture, le donne nelle case, come cameriere e baby sitter. Essere donne, lavoratrici e straniere non è mai facile, ma in Paesi come l’Arabia Saudita lo è ancora meno.
La ricca petro-monarchia wahhabita è da anni al centro di denunce e polemiche per le condizioni in cui vengono trattate le lavoratrici domestiche, tanto da spingere le nazioni di provenienza a scrivere nuove regole per le assunzioni, riducendo il numero di anni consecutivi in cui una migrante può prestare la sua opera e stabilendo salari minimi. Secondo il ministero del lavoro vietnamita, attualmente in Arabia ci sono circa 7mila lavoratrici al servizio delle famiglie saudite, grazie a un accordo siglato nel 2014. Oltre allo sfruttamento, si contestano la riduzione in fame, le percosse, le umiliazioni, la negazione del diritto a sentire i propri familiari e a uscire di casa. Spesso le donne sono costrette a lavorare per 18 ore consecutive e possono consumare solo un pasto caldo. I casi di Pham Thi Dao e Trinh Thi Linh, che al loro ritorno in patria hanno raccontato alla stampa gli abusi subiti, sono solo gli ultimi in ordine di tempo.
Una riduzione in schiavitù con pesanti ripercussioni sia sul fisico, sia sulla psiche. Molte di loro sono entrate in stati depressivi profondi e hanno perso drasticamente peso. Alcune tentano di tornare a casa prima della scadenza dei contratti per sfuggire all’inferno in cui si trovano, ma vengono forzate a tornare nelle case dove lavorano. Non ci si stupisce, purtroppo, a sentir parlare di violazioni dei diritti umani nei Paesi del Golfo, ma ciò che avviene in Arabia Saudita provoca particolare indignazione perché questo Paese, dove si trovano due delle città più importanti per il mondo musulmano, Mecca e Medina, si erge a rappresentante dell’islam nel mondo.
Una rappresentazione indegna per tante ragioni, come la corruzione della classe dirigente, l’uso strumentale e arbitrario della religione, che di fatto diventa uno strumento per il controllo sociale, i legami con le formazioni terroristiche internazionali, le discriminazioni verso le minoranze, la guerra contro lo Yemen, e non da ultimo, le violazioni dei diritti umani. Per chi è musulmano praticante andare in Arabia Saudita dovrebbe essere importante, un pellegrinaggio, invece per tanti lavoratori stranieri è un incubo dal quale si scappa appena possibile. A giudicare dalle condizioni in cui ancora oggi vivono le donne saudite, anche per loro non è facile restare lì.
Non basta poter studiare, lavorare, votare e guidare (con tutte le condizioni e le restrizioni che restano imposte); alle donne manca la libertà di scelta, di denuncia, di impegno sociale, di movimento. Cinema e automobili sembrano specchietti per le allodole quando di scopre quante donne saudite sono in carcere per aver espresso un dissenso e quante straniere sono maltrattate e considerate al pari di macchine da sfruttare. No, l’Arabia Saudita non è un Paese per donne.
La faccia oscura della condizione femminile: da lavoratrici straniere a schiave nelle ricche famiglie Solo dal Vietnam sono 7.000 le ragazze che lavorano come cameriere e baby-sitter
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