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Il crollo repentino e inaspettato (almeno visto a distanza) del regime siriano è destinato ad alterare gli equilibri regionali (anche se forse non immediatamente) e a influenzare pure attori che hanno collocazioni e mire più lontane. Per capire come potrebbe cambiare il Medio Oriente, bisognerebbe farsi alcune domande che sono comunque senza chiara risposta.
Prevedeva Recep Tayyip Erdogan di poter costringere in pochi giorni alla fuga ignominiosa Bashar al-Assad quando ha dato il via libera all’avanzata di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), la composita armata, pur efficiente e ben equipaggiata, che ha percorso il Paese da Nord a Sud raccogliendo di fatto la resa dell’intero apparato militare? Oppure, sperava solo qualche guadagno territoriale in un momento di debolezza dell’asse sciita-russo che puntellava da oltre 13 anni il governo alawita di Damasco sotto pressione della maggioranza sunnita?
Nonostante la brutalità della dittatura (l’apertura delle carceri sta mostrando le atrocità compiute sugli oppositori), capace di usare armi chimiche contro la sua stessa gente, non erano in molti a volerne la caduta.
Il fronte occidentale ha mostrato sempre esitazione nel favorirne la sostituzione. Tale riluttanza derivava dalla preoccupazione che aumentasse l’instabilità (Assad di fatto ha impedito che il caos si riversasse negli Stati confinanti ed evitato provocazioni dirette contro Israele) e si rafforzassero i gruppi estremisti, come già accaduto in altri scenari recenti (dalla Libia all’Afghanistan). Oggi l’Europa teme un’altra ondata di migranti, e tanti Paesi stanno bloccando gli ingressi da Damasco. Inoltre, si paventa una ripresa della persecuzione delle minoranze da parte di forze fondamentaliste sunnite. Per questo la Ue si troverà in ulteriore imbarazzo di fronte a sviluppi meno che positivi e il suo peso diplomatico resterà ridotto.
Anche gli Stati Uniti (che sotto Obama avevano ondeggiato durante il periodo della guerra civile siriana), con una rara, apparente sintonia fra Joe Biden e Donald Trump, sembrano chiamarsi fuori, sebbene gli aerei Usa non si siano risparmiati raid per fermare eventuali rinforzi sciiti dall’Iraq e azioni ostili nei confronti degli alleati curdi. Certo, l’America resterà alla finestra per capire (e influenzare, per quanto possibile) gli sviluppi futuri. A partire dal riequilibrio fra i due grandi attori regionali: Iran e Arabia Saudita.
Per Teheran, la caduta di Assad rappresenta un duro colpo alla propria strategia espansionista, spezzando il corridoio terrestre verso Hezbollah in Libano e diminuendo la sua influenza nel Levante. Gli investimenti iraniani in Siria sono stati ingenti, e questa sconfitta potrebbe generare critiche interne e richiedere una rivalutazione delle priorità della politica estera, anche sotto l’effetto di proteste crescenti dell’opposizione interna, più forte alla luce del crescente isolamento degli ayatollah.
Per Riad, aumentano le opportunità di espandere la propria influenza verso Damasco e controbilanciare le ambizioni iraniane. I sauditi potrebbero cercare di sostenere le fazioni siriane che si allineano ai propri interessi, mirando a reintegrare il Paese nella sfera araba. Ma il principe Ben Salman è cosciente delle potenziali scosse che potrebbero seguire al cambio di leadership, in particolare con l’influenza turca e dei (nemici) Fratelli musulmani, nonché la rinascita di gruppi estremisti che potrebbero incendiare la regione e allontanare la sigla degli Accordi di Abramo con gli Stati Uniti.
Chi ora sorride è Israele. Netanyahu, disarticolando il Partito di Dio in Libano e ridimensionando il potere di minaccia dell’Iran, ha indirettamente indebolito Assad fino a renderlo esposto a qualunque tentativo di rovesciamento. Si interrompe l’asse Iran-Siria-Hezbollah, che Tel Aviv da tempo considera il pericolo primario. Se la sicurezza di Israele sia davvero aumentata è però ancora da verificare. La mossa preventiva dell’occupazione di territori sulle Alture del Golan segnala i timori rispetto al rafforzamento di fazioni islamiste come la stessa Hayat Tahrir al-Sham (HTS), potenziali emule di Hamas.
In Libano, come detto, Hezbollah subisce una grave perdita. Senza un alleato cruciale potrebbe vedere ulteriormente indebolite le sue linee di approvvigionamento e le capacità operative, destabilizzando ancora di più le dinamiche interne. A Beirut non si esclude un aumento delle tensioni politiche. Tuttavia, il ridimensionamento della componente sciita potrebbe permettere alla democrazia libanese di recuperare spazio ed energie.
La Turchia, va da sé, emerge come uno dei principali beneficiari dell’esilio di Assad, pronta a esercitare una maggiore influenza sul futuro della Siria. Il sostegno di Ankara ai gruppi ribelli la colloca come un attore chiave nella definizione del nuovo assetto di potere. La Turchia ha ora, come minimo, l’obiettivo di contrastare la componente curda, cui sottrarre ancora territori, e il ritorno in patria di milioni di profughi scappati negli anni e ospitati malvolentieri (anche a spese della Ue): già ieri è stato aperto un valico e non si sa quanto “con le buone” molti verranno invogliati a varcarlo.
Presente con due basi marittime per lei decisive, la Russia sembra pagare il prezzo più alto per l’uscita di scena del leader che ha sempre sostenuto militarmente ed economicamente (e adesso manterrà in esilio dorato a Mosca). Comunque si voglia leggere la fine del regime, è difficile pensare che sia la soluzione più vantaggiosa per Putin. Non sappiamo che il suo apparato bellico sia così sotto stress in Ucraina da non avergli permesso di dare manforte al proprio protetto. O se il calcolo sia stato che non valeva la pena spendere ancora molto per ottenere poco. In ogni caso, la potenza imperiale del Cremlino ne esce acciaccata nell’immagine e nei fatti.
Emerge, in definitiva, un risiko complicato ancora tutto da giocare, si spera non per l’ennesima volta sulla pelle dell’oppresso popolo siriano.