Emarginato. L’ex premier cinese Li Keqiang morto ieri a 68 anni - Ansa
I mass media cinesi hanno ieri diffuso con enfasi la notizia della scomparsa dell’ex primo ministro Li Keqiang. Sulle piattaforme social molti cinesi hanno espresso dolore e incredulità per la sua morte. Li, 68 anni, da dieci mesi ritiratosi dalla vita pubblica dopo un decennio di impegno a sostegno delle riforme economiche, si trovava a Shanghai per un periodo di riposo ed è stato colpito da una crisi cardiaca che gli è stata fatale. Lascia la moglie Cheng Hong, insegnante di inglese, e una figlia.
Economista per formazione, candidato un tempo alla leadership del Partito comunista, associato al potere dal segretario generale del Partito comunista cinese e presidente della repubblica Xi Jinping e poi gradualmente emarginato anche come esponente di una fazione non del tutto allineata con Xi all’interno del partito, negli ultimi anni Li aveva visto la Repubblica popolare cinese avviarsi su una rotta statalista distante dalla sua visione, quella sintetizzata nel termine Likonomics, che puntava invece a un’economia più orientata al mercato, con una pluralità di attori e di espressioni, coadiuvata da una burocrazia più snella.
Gli anni di premierato dal 2013 allo scorso marzo sono stati un tempo che se da un lato ha visto il tentativo di creare un diverso paradigma basato anche sul merito e sulla genialità delle iniziative che ha consentito al Paese di uscire sostanzialmente indenne dalla crisi finanziaria globale, dall’altro ha assistito alla concentrazione di un potere quasi assoluto nelle mani di Xi, che ha messo fine alla politica del consenso ereditata dal suo predecessore Hu Jintao.
Una guida quella di Li, segnata da grandi attese e dalla volontà di raffreddare la crescita esponenziale che già stava provocando distorsioni e vittime, L’impossibilità di raggiungere nel 2014 l’obiettivo del 7,5 per cento di crescita annua della ricchezza portò al paese non soltanto il risultato peggiore in 24 anni ma soprattutto la certezza che la crescita a due cifre non sarebbe più stata possibile e che occorreva ormai pensare a più realistici traguardi tra il 7 e il 5 per cento, di fatto ad oggi confermati. Proprio durante il doppio il suo mandato è arrivato al capolinea il modello basato su una produzione di basso costo orientata all’esportazione con un apporto essenziale di manodopera con bassi livelli salariali. In prospettiva questo doveva segnare la desertificazione di immensi agglomerati industriali e abitativi, mentre la bolla speculativa alimentata sulle prospettive e le speranza di centinaia di milioni di cinesi della classe media ma anche su spese astronomiche nelle infrastrutture si avviava alla deflagrazione oggi in corso.
Nell’agosto 2022, davanti alla statua di Deng Xiaoping, l’iniziatore della trasformazione che ha cambiato il volto della Repubblica popolare cinese, l’allora premier aveva ribadito le sue convinzione la sua determinazione in una frase: «Le riforme e le aperture non si fermeranno. Lo Yangtze e il Fiume giallo non invertiranno il loro corso». Alla fine Li, ultimo dei riformisti, ha invece dovuto realizzare i propri limiti nel cercare di superare il “muro” imposto da un sistema autocratico e monopartitico. A confermarlo, la nomina a suo successore di Li Qiang, un alleato di Xi già a capo del Partito comunista a Shanghai.
Affrontare gli enormi problemi che sono stati in parte acutizzati dalla pandemia di Covid-19, indirizzare la complessità dall’evoluzione del colosso asiatico richiederebbe capacità e rapidità di azione. A scoraggiare molti che si trovano in posizione di potere dall’affrontare decisioni che pure sarebbero essenziali per una gestione dinamica ed efficace della transizione, è anche la campagna anti-corruzione perseguita da Xi Jinping.
A segnalare però che resta qualche crepa nel controllo di Xi è anche la caduta in disgrazia seguita da esautoramenti eccellenti che, a distanzia di mesi da quello del ministro degli Esteri, ha riguardato recentemente anche i responsabili della Difesa, della Scienza e Tecnologia e della Finanza