Alcuni visitatori in uno dei bunker sulla spiaggia dello sbarco in Normandia
Dopo più di 70 anni, senza più testimoni o quasi, è ancora possibile la memoria? Non diventa solo una parola per fare discorsi, certo necessari, ma insufficienti a tener accesa la fiamma? In Normandia, queste domande bruciano nella coscienza di chi intende perpetuare il ricordo dello Sbarco del 1944. I francesi vorrebbero iscrivere le sterminate spiagge della più vasta operazione liberatrice di sempre nel patrimonio mondiale dell’Umanità tutelato dall’Unesco. Ma in questo biennio 2018-2019 in cui l’Europa vive un’apoteosi di commemorazioni dei due conflitti mondiali, fra il centenario della Grande guerra e gli imminenti 75 anni del D-Day, un esempio a cui tanti guardano con ammirazione è giunto dal Canada.
Si tratta di una sorta di “modello dello sbarco permanente”, riconosce sul filo della conversazione Nathalie Worthington, direttrice del Juno Beach Centre, “luogo d’interpretazione e mediazione culturale” creato 15 anni fa sulla spiaggia che osservò, il 6 giugno 1944, il sacrificio delle truppe canadesi – accanto agli Alleati – dell’Operazione Overlord. Fra il canto perpetuo dei gabbiani, nell’edificio avveniristico rivestito di titanio la cui planimetria ricorda la foglia d’acero della bandiera canadese, affluiscono ogni giorno centinaia di visitatori attirati anche dal modo originale trovato per trasmettere una delicata memoria sospesa fra eroismo, martirio, speranza: «I veterani canadesi che hanno creato il centro, a cominciare dal loro leader, Garth Webb, avevano l’assoluta volontà di trasmettere la memoria, per spiegare i fatti ai loro figli e nipoti. Per questo, hanno voluto che a trasmettere fossero dei giovani ventenni giunti dal Canada, proprio come loro nel 1944. Rispetto a tanti altri centri e musei, nel nostro Dna c’è l’obbligo di rivolgerci prioritariamente ai giovani attraverso i giovani». Accanto a mostre temporanee, video, collezioni storiche permanenti lungo un percorso cronologico, la risorsa chiave è rappresentata proprio dai giovani ambasciatori bilingui giunti da tutte le regioni del Canada per passare in Normandia non più sette mesi, prima di lasciare il testimone a un nuovo “sbarco” di neolaureati fortemente motivati come loro: «Queste guide sono capaci di trasmettere la memoria perché portano il testimone ricevuto dai veterani in persona, 15 anni fa. Nel cuore di questi giovani che si succedono, c’è una fiamma che resta accesa», sottolinea la direttrice, felice di aver ricevuto l’anno scorso pure la visita del premier canadese Justin Trudeau, rimasto a lungo a contemplare in famiglia il litorale di Juno Beach, come migliaia di connazionali giunti ogni anno in Normandia.
Il Juno Beach Centre attira un numero crescente di visitatori (85mila, l’anno scorso), solo per un terzo canadesi. Le giovani guide bilingui sono divenute un’istituzione di cui parla regolarmente la stampa locale. Un esempio vivente e permanente dei legami fra le sponde dell’Atlantico.In una giornata ventosa che ricorda quella del 6 giugno 1944, le guide conducono senza sosta i visitatori sulla spiaggia, restando a lungo a rispondere alle raffiche di domande in inglese e francese, spesso uscite dalla bocca dei più piccoli. Fra le dune sabbiose, un migliaio di passi separano due croci monumentali scrutate di continuo dai gruppi. A destra, quella di legno che sovrasta l’ingresso del porto di Courseulles-sur-Mer. A sinistra, una croce di Lorena in metallo, nel punto in cui sbarcò, il 14 giugno 1944, il generale Charles de Gaulles, deciso a riprendere le redini di un Paese in ginocchio. Al suolo, fra i ciottoli e i fili d’erba, non è difficile scorgere piccole croci in legno, o papaveri in tessuto, lasciati dai visitatori per onorare quanti morirono. Grazie alle guide, fra la spiaggia e il centro, circolano senza sosta ricordi, riflessioni, aneddoti toccanti. «Discutendo con i visitatori, ci rendiamo presto conto che le storie s’intrecciano, che ogni Paese ha vissuto la guerra in un modo o in un altro. Il mondo sembra più piccolo», racconta Béatrice, 23 anni, giunta da Montréal dopo studi letterari. Fra i suoi incontri, c’è stato quello con un veterano britannico, giunto con il figlio. Al termine della visita, l’uomo uscì con un bicchiere e una bottiglia di whisky: «Si versò un sorso e levò il braccio dicendo: «To Juno! And to the boys! Ok now I’m happy, now we can go». Non lo dimenticherò mai, dice la guida.
Capita pure che la gente dei dintorni consegni al Centro oggetti che furono regalati dai combattenti del 1944. In certi casi, scatta allora il tentativo di restituire il ricordo alla famiglia del soldato, suscitando talvolta nuove traversate dell’Atlantico, nuovi incontri e ricordi scambiati. Il tessuto connettivo si allarga e approfondisce. Originario del Québec, Louis, 25 anni, responsabile delle guide dopo studi di storia, fatica ancora a capacitarsi della scelta dei suoi coetanei del 1944: «Durante la Seconda guerra mondiale, morirono 45mila canadesi. Erano volontari, scelsero di partire. Uno sforzo enorme per un Paese, all’epoca, di 10 milioni d’abitanti. In proporzione, più morti che negli Stati Uniti. Dobbiamo trasmettere il senso di quel sacrificio, fatto anche in nome dei legami ancestrali con Francia ed Europa. Come canadesi, dobbiamo la nostra posizione nel mondo, la nostra fierezza, a quel sacrificio. Questo è un luogo di memoria quasi sacro. I visitatori ci ricordano di continuo l’importanza di quello che facciamo». C’è chi diventa guida anche per ragioni personali, come Leigh, del New Brunswick, studentessa 23enne in filosofia: «Sono fiera di poter condividere con altri la storia della mia famiglia che partecipò allo Sbarco. È anche un altro modo per ringraziare la mia famiglia». In proposito, Leigh ricorda con viva emozione il gesto di una famiglia di visitatori olandesi che ha mantenuto la promessa di deporre dei fiori nel cimitero dei Paesi Bassi dove giace uno dei due familiari di Leigh morti durante il conflitto. Ha collezionato ricordi indimenticabili anche Vincent, 25 anni dell’Ontario, con studi di cinema: «Con due veterani britannici, ho avuto discussioni molto personali. Mi hanno raccontato tante storie, ma facendomi giurare di non ripeterle. Con mia grande sorpresa, mi hanno fatto tante domande. Grazie a loro, ho messo la mia vita in prospettiva. Mi colpisce il fatto che i veterani non si considerino come eroi».
La principale mostra temporanea accolta in questi mesi dal Juno Beach Centre traccia un parallelo fra le due guerre mondiali, attraverso il filtro dell’intervento in Europa di truppe canadesi in entrambi i conflitti. Ma la struttura apre pure diverse finestre di riflessione sul Canada contemporaneo, mostrandosi proiettata tanto verso il passato, quanto verso il futuro. In nome del Canada, nei dintorni del centro, è nato pure un festival estivo che attira ogni anno cantanti ed artisti dall’altra sponda dell’Atlantico, rinnovando in modo festivo il senso di gratitudine transatlantica e di un legame che non muore. «Per i veterani, queste spiagge non devono diventare un museo immobile a cielo aperto, ma un luogo di vita dove costruire ogni giorno un mondo migliore per le future generazioni», lancia Béatrice a un gruppo che osserva l’orizzonte accarezzato dal volo dei gabbiani. Nuovi attimi di silenzio, in mezzo alle folate che giungono dalla Manica. Poi un ragazzino, affiancato dai genitori, prende la parola per una nuova domanda.