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ll Sahel brucia, ma non per il coronavirus che comunque sta mietendo vittime. La vera pandemia è la violenza dei terroristi islamisti e nel mirino sono tornati i civili, rifugiati e sfollati. I combattenti legati ad al-Qaeda e al Daesh stanno infatti colpendo la regione di Liptako, l’area dei tre confini tra Burkina Faso, Mali e Niger mettendo in fuga la popolazione terrorizzata.
L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha diramato giovedi scorso un report dai toni molto allarmati sulla violenza crescente nella regione. Ed è di venerdì scorso l’appello sempre dell’Acnur/Unhcr agli Stati per raccogliere 186 milioni di dollari per la protezione e l’assistenza dei civili nel Sahel centrale, 30 milioni dei quali per la prevenzione e la cura nei campi e nelle comunità che li ospitano dove il contagio da Covid è presente.
L’Alto commissario Onu Filippo Grandi ha sottolineato la generosità degli Stati ospitanti e la fragilità della situazione soprattutto in Burkina Faso dove il numero degli sfollati interni è più che quadruplicato in un anno, passando dai 193.000 del giugno 2019 agli 848mila alla fine di aprile.
Ma la morte è arrivata nel pomeriggio di domenica 31 maggio a Intikane, località sede di un campo profughi nel Niger occidentale, a 72 chilometri dal confine maliano provocando un esodo. L’episodio segna una definitiva escalation nella strategia jihadista. I terroristi, una cinquantina di motociclisti, sono entrati sparando all’impazzata nel sito che ospita 20mila rifugiati e 15mila sfollati nigerini ferendo diverse persone. Poi hanno decapitato il capo di un comitato per i rifugiati, il direttore di un gruppo di vigilanza sui rifugiati e il rappresentante di un gruppo nomade. Gli aggressori hanno anche rapito una guardia. Quindi hanno bruciato le scorte di cibo e materiale sanitario e hanno distrutto le torri per la telefonia mobile e la principale stazione di acqua potabile, troncando la fornitura d’acqua a sfollati e comunità ospitanti per 40 chilometri.
In conseguenza dell’attacco oltre 10mila persone – sia rifugiati maliani che sfollati nigerini che componenti della comunità locale – sono fuggite in 24 ore accampandosi alla periferia di Telemces, a 27 chilometri dal luogo dell’eccidio compiuto dai terroristi islamisti. L’Acnur/Unhcr e i partner locali hanno provveduto a sistemare un migliaio di rifugi, ma la situazione sanitaria e dell’approvvigionamento idrico resta critica. Difficile garantire prevenzione igienica per il Covid e distanziamento fisico.
«È molto grave, i terroristi hanno distrutto il nostro spazio vitale», ha detto Alessandra Morelli, rappresentante dell’Acnur in Niger condannando gli omicidi. «Chiediamo a tutte le parti il rispetto dei civili e di portare i responsabili davanti alla giustizia e di far sì che questi crimini così orribili non si ripetano in futuro».
La guerra a bassa intensità nel Sahel intanto prosegue incessante. Ai primi di giugno il leader jihadista di al-Qaeda del Maghreb Abdelmalek Droukdal e alcuni suoi stretti collaboratori sarebbero stati uccisi dai droni dei soldati francesi dell’operazione Barkhane – presente nei Paesi del G5 Sahel (Mali, Niger, Mauritania, Ciad e Burkina Faso) con un contingente di 5.100 uomini aiutati anche da un contingente italiano – con il supporto di altre truppe presenti sul territorio. E i Fulani, popolazione semi-nomade accusata di sostenere i jihadisti e in conflitto per la terra in diverse aree dell’Africa occidentale con i Peul, agricoltori, hanno accusato l’esercito del Mali di aver attaccato in due riprese ai primi di giugno il villaggio di Binedama, nella regione di Mopti. Bamako ha aperto un’inchiesta.
Negli ultimi 5 anni il numero di migranti maliani giunti in Italia via mare è quadruplicato. Sono fuggiti da terrorismo e miseria.