Migranti a New York, accampati davanti all'ingresso dell'ex Roosevelt Hotel, in attesa di un posto per dormire: l'albergo è da tempo sovraffollato da persone giunte dall'America Centrale - Ansa
Moreno si muove con circospezione, basculando il capo. Gli auricolari che lo ingorgano di musica-spazzatura non gli impediscono di scannerizzare con lo sguardo ogni particolare della stazione. L’addetto al Greyhound gli sta voltando le spalle, occupato a imbarcare i bagagli, l’autista flirta senza speranze con la poliziotta in servizio. Moreno sguscia come un felino silenzioso, come fa sempre, fra le maglie lasche della sorveglianza e prende posto sull’autobus. Viene dal Guatemala, non ha soldi ma ha un permesso di soggiorno scaduto. «Mi hanno rimandato indietro tre volte – dice -, ma poi sono tornato.
Prima o poi mi riprendono e mi rispediscono a casa». Moreno ha ventidue anni. Viene da un villaggio che si chiama – la vita è disseminata di dolorose ironie – La Libertad, a due passi dal lago Petén Itza. Vuole vivere in America, da piccolo sognava «El Norte» come dal Messico in giù vengono chiamati gli Stati Uniti. Ora al Nord ci è arrivato, di strada ne ha già fatta molta. Ma un merito, quasi eroico, ce l’ha: non è ancora caduto nella rete degli stupefacenti, nella vita obnubilata dalle droghe come decine di migliaia di suoi conterranei che languiscono agli angoli delle strade. Di cosa vivi? «Mi arrangio. Vuoto bidoni di bottiglie di birra, bevo caffè, qualcuno mi allunga un dollaro ogni tanto. Bastano sette dollari al giorno per sopravvivere. Dormire non è un problema, ci si arrangia dovunque».
In pochi fingono di credere
La storia di Moreno l’ha già profeticamente raccontata negli anni Quaranta Woody Guthrie in una ballata che si chiama Deportees. Il cui ritornello dice: «Goodbye to my Juan, goodbye Rosalita, Adios mis amigos, Jesus y Maria; You won’t have your names when you ride the big airplane, All they will call you will be deportees», (quando salirete su quell'aereo, i vostri nomi saranno dimenticati, e tutti vi chiameranno soltanto “deportati”). Ma c’è un’altra cosa che Moreno, che vive ai margini del consorzio civile, non sa ancora. Non sa che il programma di Donald Trump è esattamente questo: deportare undici milioni di immigrati per «ripulire l’America dalle gang di latinos che commettono reati, rapinano, stuprano » e, come incalza il vice designato J.D. Vance, «indeboliscono il sangue puro dell’America bianca».
Il progetto si chiama, “Aurora”, ma oltre che a Nietzsche lascia intravedere un fondaco di miti e memorie celtico-naziste, il cibo-spazzatura di cui si nutre il suprematismo americano. La procedura – di fatto, un’autentica “profilazione” – ricalca il metodo con cui i palermitani identificavano dalla cadenza francese gli angioini nei Vespri Siciliani: si va alla ricerca di certi individui – illegali o presunti tali – partendo dall’accento straniero, dal loro “bad english”, sicuri di cogliere il bersaglio fra neri, latinos, asiatici e altre etnie. Il rimpatrio degli illegali non è ascrivibile al solo Trump. Negli otto anni della presidenza Obama oltre 3 milioni e seicentomila immigrati sono stati accompagnati alla frontiera ed espulsi dagli Stati Uniti.
Lo stesso è accaduto con Biden e prima di lui con Clinton. Obama aveva tentato di far uscire dall’irregolarità migliaia di immigrati, ma progetto non funzionò, soprattutto a causa degli appetiti delle molte aziende americane che sulla manodopera clandestina hanno lucrato grandi profitti. Il messicano che salta la barriera, che attraversa il deserto, che fende le acque insidiose del Rio Grande è un affare e un business per tutti: per gli spalloni che gli aprono il varco per entrare nel paradiso americano, per le aziende che li sfruttano, per le polizie e le agenzie di sicurezza che chiedono costantemente nuovi investimenti e nuovi fondi e soprattutto per la politica, che sull’argine all’immigrazione clandestina fonda in notevole misura il proprio consenso. Indifferenti di fronte alle due guerre in corso in Europa e in Medio Oriente, gli elettori di Trump si rispecchiano nei due grandi problemi che turbano il loro sonno: l’economia e l’immigrazione.
Non è un caso che l’immigrazione illegale sia diventata il cuore pulsante della brutale campagna elettorale di Trump: una vera e propria questione nazionale che si è trasformata in un’arma politica e in una fucina di egoismi. Utile, si badi bene, a entrambi gli schieramenti. Dossier ingrato e politicamente molto poco remunerativo, quello dell’immigrazione viene solitamente affidato ai vicepresidenti. Lo aveva fatto Trump con Mike Pence, lo ha fatto Biden con Kamala Harris. Con risultati deludenti per entrambi e particolarmente disastrosi per la Harris, che malauguratamente esordì nel 2021 con un monito che non lasciava dubbi: «Non venite negli Stati Uniti, noi continueremo ad applicare le nostre leggi e a difendere i nostri confini. Se verrete, sarete respinti». Oggi i dem tentano di a rimediare. Ma con affanno.
E con il risultato di aver convinto molti a votare Trump, nel timore che una vittoria della Harris riempia l’America di «clandestini». Sul fuoco soffiano governatori vicini a The Donald, come il texano Greg Abbott e il mancato runnermate Ron DeSantis, che hanno spedito sulla East Coast pullman carichi di immigrati in attesa di permesso, da più di un anno alloggiati negli alberghi di New York a 400 dollari al giorno a spese della municipalità o (per brevissimo tempo) a Marha’s Vineyard, la Capalbio americana, buen retiro dei Kennedy, nella ricca riviera del Massachusetts.
Risultato: un’impennata delle critiche al welfare americano e una levata di scudi dagli stessi conterranei che hanno tentato la sorte sulla “Bestia”, il treno che porta dall’Honduras al Guatemala al confine messicano, lo stesso su cui è salito Moreno. La solidarietà di facciata finisce qui. I latinos di New York, di Chicago, di Filadelfia, del North Carolina non vogliono questi parenti poveri, perché (come accadde alla seconda ondata di ebrei a New York nel primo Novecento) temono che gli rubino il lavoro offrendo manodopera basso costo. Sono famiglie che nell’arco di due o tre generazioni sono passate dalla povertà estrema al sogno insperato di mandare i figli al college.
Per Trump, che è arrivato a descrivere la comunità haitiana dell’Ohio come un’orda di mangiatori di cani e gatti, il problema è semplicissimo: «I quartieri degradati delle nostre città – martella ad ogni comizio – sono un inferno. Sembriamo un paese devastato da una guerra. Le gang sono piene di immigrati clandestini. Le associazioni di polizia stanno dalla mia parte». Dice Nancy Kaffer, columnist del Detroit Free Press: «Hai mai pensato a come sarebbe la deportazione di undici milioni di immigrati clandestini? È il secondo punto dell'Agenda di Donald Trump, che recita tutto in maiuscolo: «Effettuare la più grande deportazione di massa della storia americana ». Oltre che un progetto mostruoso – continua Nancy – è una grande bugia. Un serio tentativo di realizzarlo richiederebbe un livello senza precedenti di coinvolgimento delle forze dell'ordine con una inaudita intrusione nelle nostre vite. Nondimeno alla convention repubblicana di Milwaukee sono comparse fra le braccia di un folto gruppo di donne – tutte rigorosamente wasp, ovvero bianche, anglosassoni e di credo protestante – decine di cartelli con la scritta: «Mass Deportation Now», deportazione di massa adesso. Orrore civile? Non facciamoci troppe illusioni. “The Donald” è solo il capobranco di un’America che, a dispetto dei suoi proclami buonisti, sottotraccia condivide il mai sopito malthusianesimo, il vecchio laissez faire, quel liberismo anarcoide che sotto lo smalto di un «compassionismo caritatevole » (come lo chiamava il Grand Old Party all’epoca dei Bush) nasconde alla meglio il proprio egoismo sociale. Al quale, senza troppo rumore, si associa una cospicua fetta dell’elettorato dem. Che ha le stesse paure, gli stessi egoismi, lo stesso timore di venir scavalcato dall’irrompere del futuro. E senza ammetterlo forse spera che vinca il più risoluto e spietato fra i due contendenti.