Un ritratto di Hassan Nasrallah - Ansa
Alle 13.31 di Beirut, l’annuncio dell’emittente ufficiale di Hezbollah, al-Manar, ha messo fine a quasi venti ore di incertezza sulle sorti dello sceicco Hassan Nasrallah. «Il nostro segretario generale si è unito ai suoi grandi e immortali martiri, di cui ha guidato il viaggio per quasi trent’anni». Il leader della milizia filo-iraniana, dunque, è effettivamente rimasto ucciso nell’operazione “Nuovo ordine”, il raid messo a segno venerdì da Israele sul quartier generale di Dahieh, nel sud di Beirut. Su cui gli F-15I dello squadrone 69 dell’Aviazione hanno sganciato più di 80 bombe da una tonnellata scavando un cratere profondo oltre venti metri. L’esercito di Tel Aviv lo aveva detto più volte, ma all’inizio il gruppo armato aveva cercato di negare. Poi il suo corpo è stato trovato fra le macerie, insieme a quello del comandante del fronte sud, Ali Karaki.
Nel bombardamento sono morte altre nove persone – undici in totale –, 108 sono state ferite, secondo il ministero della Sanità libanese. Con la conferma, la crisi è entrata in una nuova fase, ancor più pericolosa e incerta. Proprio in contemporanea all’annuncio, negli stessi minuti, una raffica di razzi è precitata sull’Alta Galilea. All’altezza dello svincolo tra Ma’alot e Naharyha, le esplosioni, causate dalla contraerea di Iron Dome, hanno fatto tremare l’asfalto. Le poche auto in circolazione si sono fermate di colpo. Da una, i genitori hanno fatto scendere il piccolo Hussein, 4 anni, di origini palestinesi come si vede dal nome, in preda a una crisi di panico. Scene analoghe si sono ripetute più volte nel corso della giornata di ieri nel nord di Israele: in totale Hezbollah ha lanciato almeno 90 razzi, anche su Tel Aviv e la Cisgiordania. E gli Houti hanno fatto fuoco dallo Yemen.
Lo stesso esercito – Tzahal, l’acronimo – non nasconde la preoccupazione. «Ci aspettano giorni difficili – ha ammesso il capo di Stato maggiore, Herzi Halevi –. Siamo in allerta massima, in difesa e in attacco, su tutti i fronti». Il segretario dell’Onu, António Guterres, ha esortato a «fare un passo indietro per fermare il ciclo di violenze». Mentre le principali potenze, dagli Usa alla Cina, hanno esortato a evitare l’escalation. Certo, gli accenti sono stati differenti. Washington, per bocca del capo del Pentagono Lloyd Austin ha ribadito, in un colloquio con il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, il proprio sostegno in chiave anti-iraniana. Poco dopo, il presidente Joe Biden, ha ribadito l’impegno Usa per contenere il conflitto, pur ribadendo il diritto di Tel Aviv alla difesa. La morte di Nasrallah – ha detto – è una «forma di giustizia per le sue molte vittime». Ma è tempo – ha sottolineato – di «concludere gli accordi su Gaza e il Libano per garantire stabilità alla regione». Sulla stessa linea, la vice e candidata dem alla Casa Bianca, Kamala Harris, che ha ricordato il «sangue americano» sparso dallo sceicco. Retorica a parte, Washington è preoccupata, come dimostra la scelta di aumentare le forze militari nella regione. Anche Mosca e Pechino, vicine a Teheran, lo sono, anche se hanno addossato la responsabilità di «eventuali conseguenze» allo Stato ebraico. «Smetta di utilizzare metodi terroristici per fini politici», ha detto il ministro degli Esteri, Sergeij Lavrov all’Onu.
Un ritratto di Hassan Nasrallah - Reuters
È la reazione degli ayatollah però il punto cruciale. Tra l’altro, nel raid di Dahieh è rimasto ucciso anche Abbas Nilforoushan, vice-comandante dei Guardiani della Rivoluzione. La Guida suprema Ali Khamanei ha proclamato 5 giorni di lutto nazionale per il “fedele” Nasrallah. ue in più di quelli deciso a Beirut. Da un luogo sicuro in cui si è rifugiato dalla notte di venerdì, il leader iraniano ha promesso, in un messaggio trasmesso in tv, che «il suo sangue sarà vendicato». Poi ha aggiunto: «Tutti i musulmani sostengano il popolo del Libano e il fiero Hezbollah. Il destino di questa regione sarà determinato dalle forze della resistenza».
Parole accolte con un’ovazione nella piazza Palestina di Teheran dove anche ieri una folla è stata fatta radunare con le bandiere del Partito di Dio in segno di solidarietà. Come queste si tradurranno nella pratica, però, non è dato saperlo. Hassan Akhtari, vicepresidente per gli affari internazionali, ha anticipato l’intenzione di inviare truppe in Libano e sul versante siriano e libanese delle alture del Golan. «Come nel 1981», ha aggiunto, evocando lo spettro della grande guerra tra Israele e il Paese dei cedri. Per scongiurare il rischio, Tzahal ha di fatto “preso il controllo” pattugliandolo con i caccia dell’aeroporto di Beirut, l’unico operativo, in modo da evitare i rifornimenti d’armi da Teheran.
«Qualunque volo sospetto sarà respinto», ha tuonato l’esercito. A riprova, il ministero dei Trasporti libanese ha dovuto far tornare indietro un aereo proveniente dalla Repubblica islamica. Poco dopo, la compagnia AirIran ha sospeso i collegamenti mentre Bruxelles ha diffuso un’allerta alle compagnie Ue affinché evitino lo spazio aereo libanese. Il fragile governo nazionale cerca disperatamente di evitare che la nazione diventi campo di battaglia nello scontro fra Israele e gli ayatollah.
Sembra, però, troppo debole per riuscirci. E il suo popolo sta pagando un prezzo altissimo. Sono già oltre mille i morti – di cui mille bambini – in sei giorni di raid che l’esercito di Tel Aviv ha proseguito senza sosta per tutta la giornata di ieri. I bombardamenti hanno martellato la Beqaa e Beirut per «eliminare obiettivi legati a Hezbollah», ha precisato Tzahal: più di 140 sono stati colpiti nelle ultime 24 ore. Depositi di armi, infrastrutture e comandanti di alto rango, dunque. Come Hassan Khalil Yassin, capo di un'unità della divisione di intelligence del Partito di Dio, ucciso nella capitale. Di nuovo, le forze armate di Tel Aviv hanno esortato i civili a lasciare il sud di Beirut e la Beqaa per l’intensificarsi dell’offensiva.
«Alcuni scappano a piedi, molti sono ancora bloccati in auto – ha denunciato Medici senza frontiere (Msf) –. A Beirut, oltre 500 scuole sono piene di persone in fuga. La gente dorme in auto per strada e gli ospedali sono sopraffatti dal numero di feriti». Gli sfollati interni hanno raggiunto quota 200mila, secondo le stime dell’Agenzia Onu per i rifugiati (Acnur-Unhcr), mentre 50mila hanno cercato rifugio in Siria. ActionAid parla di «necessità umanitarie senza precedenti». La stessa Onu ha parlato di periodo più drammatico per il Paese da decenni. E lo scenario rischia di peggiorare. Di nuovo la palla passa nelle mani di Teheran. E della capacità di Washington di persuaderla a evitare la deflagrazione.