Pato, Matyla e la piccola Marie. Quando la politica internazionale, cieca ed egoista, distrugge una famiglia - Pato Crepin
"Il mio nome legale è Mbengue Nyimbilo Crepin, ma mi chiamano tutti Pato". Doveva morire per salvare la moglie e la figlia. Ora lui è vivo e solo. A ottobre avrebbe festeggiato, con loro, trent’anni. Già vedovo, e senza più l’unica figlia, a questo punto della sua storia Pato considera la morte come il male minore. Matyla e Marie, mamma e figlia, sono morte abbracciate nel deserto. Respinte e uccise da intese politiche spietate.
E’ nato il 26 ottobre 1993 nella regione litoranea francofona del Camerun, ma è cresciuto a Buea, nella zona anglofona. È stato durante gli scontri tra i secessionisti e l'esercito che "ho lasciato il Camerun perché hanno ucciso la mia sorella maggiore, quella che faceva tutto per me".
Nessuno dovrebbe poter sopportare i trent’anni di sventura di un ragazzo senza più speranza. Una tragedia che è una denuncia di cui si fanno portavoce i “Refugees in Libya”, grazie a cui è stato possibile rintracciare Pato e raccontare la sua disperanza.
L’odissea fino alla Libia è stata la solita sequenza di drammi, compravendite di vite, sfruttamento e infine un campo di prigionia. A Qarabulli, sotto il controllo di una milizia affiliata al ministero dell’Interno di Tripoli.
E succede che nel posto peggiore nel quale un essere umano possa trovarsi, la speranza può rinascere nello sguardo di una ragazza. Era Matyla Dosso, la ragazza cristiana futura moglie di Pato, che in Libia si era presentata con il nome di Fati, nel timore di persecuzioni religiose. Era nata il 30 gennaio 1993, trentenne anche lei. Originaria di Gbèka, Touba, nell'ovest della Costa d'Avorio, ma vissuta Yopougon.
"Era orfana di padre e di madre - racconta Pato -, figlia unica nonostante oggi alcune ragazze fingono di essere sue sorelle, ma non si sono mai preoccupate di lei. Maty non aveva nessuno, solo la sorella di sua madre e la cugina con cui erano in contatto".
Il dolore di un padre che non riesce a salvare la moglie e la figlia si può solo provare a scriverlo. "Maty è arrivata in Libia nel 2016 e anch'io. Ci siamo conosciuti in un campo di prigionia a Qarabulli, durante un viaggio di preparazione per l'Italia e siamo stati insieme fino alla sua morte. Ci siamo incontrati nel giugno 2016 e abbiamo dato alla luce Marie che è nata il 12 marzo 2017", racconta Pato senza fermarsi.
Parla per non prendere sonno e riempire la notte che gli è piombata addosso in forma di strette di mano tra capi di Stato, incuranti di come sarebbe andata a finire per gli scartati che nessuno vuole.
Già una volta Maty era stata incinta. Si vedeva il pancione al ptimo tentativo di attraversare il Mediterrraneo dalla Libia. Andò male, con quel gommone. E anche con la gravidanza.
Ci hanno provato altre quattro volte. E per quattro volte sono stati riportati in un campo di detenzione. I peggiori. Bani-Walid, dal luglio ad agosto 2016. Poi Tarik al Sikka, dal novembre 2019 al febbraio 2020. Dal 3 al 22 maggio 2021 sono stati detenuti nella prigione Ghout-Al-shaal/Al-Mabani. Infine, dal 5 al 28 agosto 2021 sono stati imprigionati a Tariq al Matar. Sempre insieme, lei e Pato. A promettersi che se la sarebbero cavata in qualche modo, se mai si fossero separati.
Nel 2019, durante la loro detenzione nel carcere di Tajoura, due bombardamenti aerei fecero una strage di migranti: più di 40 morti e decine di feriti. Pato era uno di loro. Il timpano sinistro rimase perforato e mai curato. Racconta che da quattro anni il suo orecchio perde sangue ed emana cattivo odore.
Nel diario delle vite a perdere si aggiunge un’altra data. Un giorno di paura e speranza. Giovedì 13 luglio 2023. Pato, Maty e la piccola Marie, accompagnati da tre uomini e un'altra donna, intraprendono il viaggio per fuggire dalla Libia verso la Tunisia. Pato giura che non aveva intenzione di venire in Europa. Pensava che in Tunisia si sarebbero potuti sistemare e mandare Marie a scuola. “Era questo il grande desiderio di Maty per Marie che in Libia non aveva potuto ricevere nessuna istruzione”.
Quando la polizia tunisina li ha bloccati, ha fatto a pezzi i loro telefoni. "Era venerdì mattina, abbiamo cercato di attraversare il confine, la polizia ci ha preso e ci ha picchiato con le armi, rimandandoci nel deserto. Siamo rimasti lì tutto il giorno e venerdì sera ci abbiamo riprovato, ma questa volta ci siamo riusciti. Sabato mattina eravamo già a Ben Gardene (sulla costa al confine con la Libia, ndr), e poi a Zarzis. Stavamo cercando un posto dove bere acqua e lì la polizia ha intercettato mia moglie, mia figlia e me".
Nessuna pietà. Dopo una notte di sofferenza e fame nel deserto, le autorità li hanno trasferiti a un altro posto di blocco, dove Pato dice di aver subito altri maltrattamenti. Arriva la domenica. E comincia la lenta agonia. La polizia li trasporta nel deserto e li abbandona insieme ad altre trenta persone, senza acqua, con temperature vicine ai 50 gradi e neanche un grosso cespuglio per cercare una spanna d’ombra.
Pato, Matyla e la piccola Marie. Vittime della ferocia della polizia tunisina e della politica europea - Pato Crepin
Pato non sta bene. L’orecchio malconcio, le energie che mancano, lui che non riesce più a tenere il passo degli altri. Un padre giovane e che dovrebbe essere in forze, invece diventa un peso per la famiglia. Così si sentiva Pato.
E allora fa l’unica cosa che gli sembrava sensata. Umiliante, ma logica: “Lasciatemi qui, voi state con gli altri, io proverò a raggiungervi, ma voi andate”. Loro niente. Lo hanno incoraggiato a resistere, a finire inisieme quello che insieme avevano cominciato. "Abbiamo camminato per almeno un'ora prima che io perdessi i sensi. Mia moglie e mia figlia hanno iniziato a piangere. Ho chiesto loro di andarsene e di lasciarmi perché se fossero rimaste sarebbero morte con me, quindi la cosa migliore era raggiungere gli altri ed entrare in Libia”.
Non c’era altra scelta. Bisognava salvare Marie, “così mi hanno lasciato a terra, nel deserto. Non avevo più forze e sapevo che per me era finita. Non riuscivo quasi più a respirare”.
Di notte, sulle piste di sabbia, possono accadere miracoli. Perché, potendo scegliere, è di notte che i viaggiatori di mestiere e i camminatori per necessità si mettono sulle piste per sfuggire alla calura orientandosi con le stelle. E la notte in cui Pato doveva morire nel buio, lì in mezzo al nulla, giungono tre sudanesi, in forze e con abbastanza acqua per dissetarsi tutti. Anche loro andavano in Libia, e hanno dato un passaggio a Pato, dopo che aveva riacquistato un po’ di vigore.
In testa un solo pensiero: raggiungere Maty e Marie. Lunedì scorso il profugo attraversa il confine libico. Ma di loro nessuna traccia. Svanite nel niente insieme a all’intero gruppo: “Fino a quando non ho appreso la notizia sui social network. Quando mi hanno mostrato le foto ho riconosciuto i loro vestiti e i loro corpi".
In cuor suo sperava e pregava che fosse una foto scattata mentre ancora dormivano. Ne parla al presente: "È la stessa identica posizione - racconta - che loro due assumono sempre per andare a letto. Speravo che fossero solo stanche e che tornassero da me”. C’è una cosa che a Pato fa rabbia, più dell’essere vivo al posto loro: “E’ che prima di morire sapevano che anch'io sarei morto a causa dello stato in cui mi hanno lasciato, ma Dio mi ha salvato".
C'è una cosa che Pato desidera ancora. Una sola e poi nient'altro: “Sapere dove porteranno i loro corpi. Non ho idea di dove le metteranno - dice -, parlano di obitorio ma non ho mai sentito che i libici mettano i corpi nell'obitorio. Vorrei sapere dove sono i loro corpi e andare da loro, e poterle portare entrambe in Costa D’Avorio. Fosse anche l’ultima cosa che farò”.