Il numero due della Commissione Ue, Frans Timmermans (Ansa)
Contro la Polonia scatta l’“opzione nucleare”, l’attivazione – per la prima volta in assoluto – dell’articolo 7 del Trattato Ue, previsto per Stati membri che violano in modo «grave e sistematico» lo Stato di diritto. Dopo due anni di vani negoziati sulla controversa riforma del sistema giudiziario con la Polonia governata dal Partito del Diritto e della Giustizia, ultranazionalista e populista, di Jaroslaw Kaczynski, la Commissione Europea ha chiesto l’attivazione dell’articolo 7, che può portare fino alla sospensione dei diritti di voto. «È a malincuore che l’abbiamo fatto – ha detto il primo vice-presidente della Commissione, Frans Timmermans – ma i fatti non ci hanno lasciato scelta».
Arriva così all’apice lo scontro tra Varsavia e Bruxelles, che però non è sola: a suo sostegno vari Stati membri, il Parlamento Europeo, il Consiglio d’Europa. «In due anni – si legge in una nota della Commissione – le autorità polacche hanno adottato oltre 13 leggi (le ultime, le più controverse, il 15 dicembre, ndr) che riguardano l’intera struttura del sistema giudiziario in Polonia, impattano sul Tribunale Costituzionale, la Corte Suprema, le corti ordinarie, il Consiglio Nazionale della magistratura». Per Bruxelles «il potere esecutivo e quello legislativo sono stati messi nella condizione di interferire sistematicamente in modo politico nella composizione, nei poteri, nell’amministrazione e nel funzionamento del potere giudiziario».
Gravissimo è che ormai «la costituzionalità della legislazione nazionale non può più esser garantita». Con effetti devastanti, visto che Kaczynski ha modificato la legge elettorale, la legge sui media, imposto multe a testate ree di aver diffuso notizie sulle proteste. «Se si pone fine alla separazione dei poteri – ha avvertito Timmermans – si distrugge lo Stato di diritto, e questo vuol dire distruggere il funzionamento dell’Unione nel suo complesso». Di qui la richiesta, con una quarta raccomandazione, di modificare i vari provvedimenti, e il deferimento alla Corte Ue per la legge che impone il ritiro di vari giudici ordinari con la modifica dell’età pensionabile. Entro tre mesi il governo polacco dovrà adeguarsi, altrimenti l’articolo 7 va avanti.
Varsavia è però irremovibile. «Ho deciso di firmare queste leggi» ha dichiarato ieri il presidente Andrzey Duda. Poco prima il ministero degli Esteri aveva definito la decisione di Bruxelles «essenzialmente politica, non legale». «La Polonia rispetta lo Stato di diritto come il resto dell’Ue» ha sostenuto il neo premier Mateusz Morawiecki, che il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker aveva invitato il 9 gennaio a Bruxelles. In realtà la mossa di Bruxelles, di per sé sacrosanta, non è scevra di rischi. Già per arrivare alla sola constatazione ufficiale di «rischi» di violazione dello Stato di diritto servono 22 stati membri su 27. E già è scontato il no dei tre alleati di Varsavia nel Gruppo di Visegrad (Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca), cui potrebbero aggiungersi ora anche Bulgaria e Romania, quest’ultima alle prese con riforme della magistratura analoghe a quella polacca, e ora forse pure l’Austria. D’accordo con Bruxelles invece Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna. Per poi arrivare alle sanzioni serve l’unanimità. E ieri Budapest (da tempo criticata per misure illiberali) ha annunciato che porrà il veto.
Varsavia, insomma, sa di non rischiare davvero, se non in termini di isolamento. «Dobbiamo porre fine – ha tuonato il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, ex premier polacco e nemico di Kaczynski – a questa devastazione della reputazione della Polonia».