mercoledì 18 settembre 2024
La reazioni del Libano e gli scenari possibili dopo il cyberattacco ai militanti di Hezbollah che ha scosso il Paese. Il dito puntato contro Israele
Ambulanze all'entrata del centro medico dell'American University di Beirut

Ambulanze all'entrata del centro medico dell'American University di Beirut - Ansa

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Il Libano è sotto choc dopo l'esplosione di decine di cercapersone in possesso di miliziani di Hezbollah, causando la morte di almeno 12 persone e il ferimento di 4mila. Non si era visto un simile sgomento dalla devastante esplosione al porto di Beirut il 4 agosto 2020, con un flusso continuo di ambulanze a sirene spiegate. Gli ospedali in crisi sono in particolare quelli che si trovano nella periferia sciita della capitale libanese, al-Zahra e al-Sahel, ma anche tutti i centri medici sparsi nel Sud e nella Valle della Beqaa risultano sotto pressione. Sui mass media, il dito è stato puntato da subito contro Israele. Diversi canali tv sottolineano come un consigliere del premier israeliano Netanyahu abbia «rivendicato» sulla rete il cyberattacco, prima di cancellarlo. I cyberattacchi, dicono ancora, sono avvenuti a poche ore dalla decisione del governo israeliano di inserire il rientro degli sfollati della Galilea tra gli obiettivi della guerra, e ciò attraverso un «differente approccio» nella conduzione della guerra contro Hezbollah.

All'inviato americano Amos Hochstein che gli chiedeva lunedì di non intraprendere una guerra aperta in Libano e di privilegiare la soluzione diplomatica, Netanyahu avrebbe risposto che «solo un cambiamento radicale» può permettere a Israele di raggiungere i suoi obiettivi di sicurezza.

Guerra totale, allora? Il terreno sembra pronto, dopo undici mesi di fuoco incrociato in cui le due parti – Israele e Hezbollah – hanno, tutto sommato, rispettato le “regole di ingaggio” prestabilite. L'unico “strappo” è avvenuto lo scorso 25 agosto, quando Israele ha lanciato decine di raid aerei contro le postazioni della formazione sciita presenti nel Sud del Libano, ma ha visto successivamente piovere sui suoi territori 340 missili e decine di droni che hanno preso di mira tutte le sue basi militari sparse tra le Galilea e le alture del Golan. Quattro lunghe ore in cui il mondo ha temuto il peggio. Ma poi tutto è rientrato. Oggi, ci troviamo di nuovo sull’orlo di un baratro che non può che essere devastante per ambo le parti.

A Beirut, la rabbia monta negli ambienti vicini al Partito di Dio per l'elevato numero delle vittime, ma soprattutto perché Israele «non ha operato alcuna distinzione tra civili e militari».
I cercapersone esplosi, dicono, sono in dotazione anche a membri di associazioni di volontari e a operatori educativi e sanitari (membri dell'Ente sanitario islamico che fa capo a Hezbollah). Nel Paese regna anche molta perplessità di fronte a una simile défaillance. Hezbollah ha sempre “investito” nella sicurezza delle sue telecomunicazioni, elemento indispensabile al suo apparato militare.
Lo scorso febbraio, il segretario generale Hassan Nasrallah aveva pure chiesto ai suoi partigiani di rinunciare provvisoriamente ai loro cellulari, a quegli «agenti assassini che si trovano nelle vostri mani». In diverse piazze si erano visti immediatamente centinaia di telefonini buttati via. Quella della sicurezza, va detto, era diventata da tempo una questione di vita o di morte per la formazione filo-iraniana. Nel maggio 2008, Hezbollah aveva reagito male alla decisione del governo libanese di mettere fuori legge il suo sistema parallelo di comunicazioni telefoniche. La decisione aveva indotto il Partito di Dio a una prova di forza con il governo allora guidato dalla “Coalizione (anti-siriana) del 14 marzo”. Insieme al movimento Amal e ad altre formazioni filo-siriane, Hezbollah aveva organizzato dapprima un movimento di disobbedienza civile che ha condotto alla chiusura dell’aeroporto di Beirut e delle vie di accesso e poi alla presa del controllo del settore ovest della capitale, tradizionale roccaforte sunnita, innescando violenti scontri armati costati oltre 70 morti.
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