Ansa
Nei Paesi occidentali alle prese con i problemi generati dal declino demografico gli immigrati rappresentano una risorsa importante, sia perché il loro arrivo permette di compensare il calo della popolazione, sia perché le donne di origine straniera hanno in genere più figli. Se però all’inizio le famiglie degli immigrati sono mediamente molto più numerose di quelle degli autoctoni, col passare del tempo gli stili di vita tendono a uniformarsi e anche il divario della natalità si assottiglia. In Italia, ad esempio, il numero medio di figli per donna nel 2023 è stato di 1,20, ma si tratta di una media tra l’1,18 delle italiane e l’1,87 delle straniere. Quindici anni fa il tasso di fecondità era di circa 1,4 per le italiane e di 2,5 per le immigrate.
In Danimarca lo scorso anno è accaduto qualcosa di inusuale: per la prima volta le donne immigrate da paesi “non occidentali” hanno avuto meno figli delle danesi, 1,4 contro 1,6. Rispetto a 30 anni prima il calo per le straniere è stato superiore al 50%. Come mai? I demografi e gli scienziati sociali hanno fornito molti argomenti, concordando sul fatto che le immigrate si sono adattate culturalmente alla società danese. Un buon segnale di integrazione, insomma. Anche le donne di origine straniera, cioè, vogliono ricevere un’istruzione adeguata, entrare nel mercato del lavoro, sposarsi quando è il momento. Un comportamento sociale e matrimoniale sempre più simile a quello delle giovani di origine danese ed europea.
Non è solo questo, ovviamente. Il dato può risentire infatti dell’esaurimento dell’ondata migratoria dalla Siria avvenuta dopo il 2010, che ha inizialmente generato un baby boom, mentre va anche detto che i tassi di fecondità sono in calo ovunque, nelle nazioni occidentali sviluppate, ma ormai anche in quelle di provenienza di molti immigrati. Tuttavia, la spiegazione dell’adeguamento agli stili di vita occidentali è quella che riscuote più consensi ed è interpretata come una vicenda di successo.
Questa trasformazione culturale, in Danimarca, si è però manifestata anche in virtù di una precisa volontà politica. Nel 2002, ad esempio, è stata introdotta una norma per limitare i matrimoni a scopo di ricongiungimento, consentendo le nozze tra residenti e stranieri solo ad aspiranti coniugi con almeno 24 anni di età, offrendo così alle donne più tempo e libertà di scelta, e occidentalizzando i tempi e i modi del fare famiglia. Un’altra legge citata tra le ragioni del calo della fecondità “straniera” è quella che permette di ricevere sostegni economici solo a chi ha lavorato almeno 225 ore in un anno, un vincolo che ha aumentato l’occupazione femminile, ma ha ridotto il tempo per dedicarsi ai figli.
Il caso danese è emblematico perché delinea bene i contorni di un paradosso che sempre di più emerge nei contesti sviluppati. Da un lato la nascita di figli è agevolata solo da uno scenario in cui sono disponibili servizi di cura, misure che favoriscono la conciliazione tra famiglia e lavoro per entrambi i genitori, alti tassi di occupazione maschili e femminili, buoni sostegni. Dall’altro, però, nelle società caratterizzate da un elevato benessere, come è accaduto in Danimarca, e nonostante un welfare familiare considerato tra i più evoluti, sono soprattutto le donne appartenenti ai gruppi a basso reddito, e con istruzione inferiore a decidere di avere meno figli, circostanza che caratterizza soprattutto le straniere.
Non è un problema da niente, se alla spinta ad acquisire stili di vita occidentali non corrisponde il successo di altre forme di integrazione, e se nelle società più ricche il beneficio dei diritti e delle maggiori libertà finisce per presentare il conto ai più poveri, quando si tratta della possibilità di diventare madri o padri.